Focus, Recensione, Thriller

BLACKHAT

TRAMA

Un attacco informatico mette fuori uso le pompe di raffreddamento della Centrale Nucleare di Chai Wan provocando una terribile esplosione, ma nessuna rivendicazione politica né alcuna richiesta economica segue all’attentato. Per far luce sulla misteriosa intrusione cibernetica, l’Esercito Popolare di Liberazione incarica il Capitano Chen Dawai di avviare immediatamente un’indagine. Riconosciuto nel RAT (Remote Access Tool) che ha aperto la strada all’esiziale malware una propria creazione scritta anni prima insieme all’hacker Hathaway, Dawai si reca negli Stati Uniti con la sorella Lien, affidabile ingegnere di rete, e, per identificare il responsabile dell’attacco, chiede la provvisoria scarcerazione dell’hacker attualmente detenuto in un penitenziario della Pennsylvania. Ottenuta la libertà vigilata di Hathaway e allestita l’insolita squadra investigativa, Dawai e compagni si mettono sulle tracce dell’ignoto criminale informatico, che nel frattempo ha colpito anche il mercato azionario, provocando un improvviso aumento delle quotazioni della soia.

RECENSIONI

Che il cinema di Michael Mann sia intimamente umanista non è affatto un segreto: anzi, l'etichetta 'umanesimo manniano' si è ormai tramutata in vero e proprio dogma critico, con lo sgradevole retrogusto che l'onnipresente frequenza del suo impiego comporta. Tuttavia, nonostante le apparenze spiccatamente cibernetiche e al di là di ogni ragionevole scetticismo sull'abuso della formula, Blackhat conferma la tenuta del dogma umanista. Western mascherato da cyber-crime thriller, Blackhat declina difatti il canonico programma di umanizzazione secondo due percorsi paralleli e concomitanti: l'indagine informatica e l'evoluzione del protagonista. Il problema di fondo è ancora una volta quello dell'identità: identificare la fonte dell'intrusione cibernetica diviene lo snodo cruciale per risalire dall'astratto al concreto, per agganciare il flusso disincarnato di dati alla sorgente umana, alla persona che lo ha lanciato concretamente. Dal malware all'indirizzo IP e dalla propagazione del virus al tasto Enter: ecco il tragitto in grado di restituire peso specifico e fisionomia umana a un attacco che sembrerebbe irrecuperabilmente astratto e inattingibile, proveniente dal magma indistinto della rete. L'inchiesta intende insomma risalire all'individuo responsabile dell'intrusione, ricostruendo faticosamente, attraverso tracce digitali e frammenti di codice, la sua identità: è questo l'autentico nucleo umanizzante dell'indagine.

Non è affatto fortuito che, fin dalle prime sequenze, il misterioso blackhat sia mostrato soltanto di spalle: prima di vedere il suo volto, Hathaway dovrà scoprire, grazie a un'acquisizione di dati sempre più low-tech (si pensi al recupero del server danneggiato nella sala della centrale nucleare e all'incursione nel centro di Giacarta che ospita i server Intrarmour), il piano architettato dal nemico e l'oscuro significato dei suoi sabotaggi - in una sequenza ambientata in Malesia che riecheggia apertamente la dinamica di identificazione tra cacciatore e preda tipicamente manniana (Manhunter e Heat - La sfida, giusto per menzionare i titoli nei quali l'indagine si costruisce e sviluppa sull'assimilazione dei meccanismi psicologici del criminale da parte del detective). A Mann, insomma, la tecnologia interessa in quanto fatto estetico: come estensione sensoriale, protesi che estende i confini dell'umano oltre la sfera della percezione immediata, ma che alla percezione empirica deve essere ricondotta. Ecco perché la tecnologia stessa si trasforma da dimensione occulta e autoreferenziale in risorsa che permette la visualizzazione concreta della propria attività (la captazione del trasmettitore Bluetooth a corto raggio nel Yau Ma Tei Garden di Hong Kong): un dispositivo di rilevazione/rivelazione che rende visibile e tangibile ciò che i sensi non sono in grado di cogliere immediatamente e che, soprattutto, non deve essere scisso dalla sfera corporea.

Il secondo percorso umanizzante di Blackhat, quello riguardante l'evoluzione del protagonista, può invece sintetizzarsi in questi termini: dall'uomo digitale all'uomo manuale. L'intero film, difatti, non è che la rappresentazione delle modalità di affrancamento del protagonista da una tecnologia alienante e imprigionante. Persino fisicamente: la cavigliera elettronica di cui si sbarazza nella parte finale del film costituisce l'ultimo laccio tecnologico che lo limita e vincola, rendendolo controllabile e reperibile. Una volta liberatosi da questo impedimento, Hathaway diventa tecnologicamente irrintracciabile, ma totalmente indipendente e moralmente responsabile delle proprie azioni: a partire da questo momento, egli deve rendere conto soltanto alla propria volontà e non più alle direttive poliziesche. Non è più il sorvegliato ghostman che comunica per procura col rivale sdksdk, ma un individuo pienamente titolare delle proprie scelte, finalmente capace di affrontare il nemico allo scoperto, a distanza ravvicinata e all'arma bianca, in un confronto dall'inequivocabile sapore western. L'azzeramento delle distanze coincide con l'annullamento dell'astrazione impersonale: alla virtualità del codice binario e dei nickname si sostituisce dapprima la minacciosa tensione della conversazione telefonica e poi la vulnerabile prossimità del faccia a faccia, del regolamento di conti da uomo a uomo.

Ma se il doppio percorso umanizzante è condotto con esemplare linearità e coerenza, non si può dire altrettanto, secondo chi scrive, dell'impianto estetico e drammaturgico del film. Visivamente discontinuo (il digitale oscilla sensibilmente tra suggestive stilizzazioni e inerti fraseggi illustrativi), artificioso nei dialoghi (specialmente quelli sentimentali e introspettivi) e deficitario nella costruzione in profondità dei personaggi (Lien su tutti, ridotta a esile figura ancillare), Blackhat non solo non aggiunge alcunché alla riflessione antropologica elaborata in altri frangenti da Michael Mann con maggiore incisività (basti ricordare il seminale Strade violente, il sottostimato Alì, l'imperioso Miami Vice o il più recente Nemico Pubblico), ma tradisce in più occasioni stridenti cali d'intensità che possono imputarsi soltanto in parte alle non indimenticabili prove attoriali (fatta eccezione per Viola Davis nei panni della responsabile statunitense della squadra investigativa). E se il personaggio di Hathaway si presenta sullo schermo evocando inevitabilmente l'insolente riottosità di Jena Plissken, il redde rationem finale in Papua Square, malgrado il profluvio di ralenti e cadaveri, non raggiunge la maestosità epica a cui ambisce. Del tutto posticci e gratuiti, infine, i riferimenti agli attentati dell'11 settembre.

Grazie a Mirko Salvini per l'acuta osservazione sull'impianto western travestito da cyber-crime thriller.

Spettri che si aggirano nell'ombra della crisi. Come Dillinger durante la Grande Depressione, così Nicholas Hathaway oggi (nickname ghostman), hacker, figlio di quella nuova organizzazione sociale formatasi nella pervasività globale dei flussi digitali, costretto, suo malgrado, a scontrarsi con i vertici del proprio stesso sistema; contro un oscuro scrutatore anonimo, intangibile, espressione del nuovo imperialismo tecnocratico, degenerazione del liberismo post-moderno, che si attua attraverso lo spossessamento dei segreti delle grandi potenze finanziarie; una spaventosa tirannide che pur di sfogare le sue logiche fameliche scatena eventi cataclismatici per far schizzare i propri interessi speculativi. Come l'esplosione della centrale nucleare nei pressi di Hong Kong, posta in apertura di Blackhat, banco di prova dell'inondazione che dovrà travolgere la Malesia per far così balzare alle stelle il costo dello stagno. Del resto, nel mondo artificiale interamente fabbricato dall'uomo di Michael Mann, la causa scatenante l'incidente non è mai naturale ma sempre riconducibile all'azione umana, in questo caso 'frantumata' nei click che convertono numericamente il danno in un attacco cifrario.

Per quanto i presupposti possano far pensare ad uno scontro se non paritetico perlomeno similare, Hathaway e il suo antagonista, Sadak, sono in realtà figure congruenti la cui sovrapposizione o collateralità sarà la conseguenza di un moto di avvicinamento. I due partono infatti da posizioni opposte e le loro traiettorie non potranno che risultare complementari. Hathaway viene presentato come un corpo assoggettato, rinchiuso, imprigionato, bersaglio della repressione penale. Sadak entra in scena decorporalizzato; come azione, atto di digitazione, immediatamente disperso nei e dai messaggi, dissolto e decontestualizzato nella trasmissione di simboli, formule, codici. Se il primo, dagli accordi presi con la task-force internazionale costituitasi per sventare l'azione di hackeraggio, si dimostrerà capace di rompere il meccanismo crittografico di attacco informatico elaborato dal secondo, potrà riottenere la libertà. All'operazione cifratoria corrisponde quindi un gesto di decriptaggio.

Hathaway, mentre costringe il proprio rivale ad uscire allo scoperto, cerca allo stesso tempo di rendersi imprendibile, innanzitutto ai servizi segreti che hanno voluto la sua collaborazione. Appena ne ha l'occasione manomette il rilevatore di geolocalizzazione messogli addosso per monitorare la sua posizione. Sa che per poter realmente farla finita deve disfarsi del proprio corpo, cominciando dalla sua tracciabilità. L'avvicinamento con Sadak avviene per gradi: prima attraverso messaggi lanciati nel flusso di dati, poi telefonicamente, per arrivare, infine, all'incontro vero e proprio. Uno scontro all'arma bianca che si rivela essere la realizzazione di una palingenesi. Uccidendo il rivale Hathaway conquista la sua invisibilità, entra nel regno della trasparenza totale. Indicativa, in tal senso, la sua ultima apparizione prima di uscire definitivamente di scena: un'immagine sgranata, sfocata, esautorata di colore, restituitaci dall'occhio di una camera di video-sorveglianza. Una banda visiva di scarsa nitidezza colta nell'attimo di svanire per sempre. Una visione reduplicata, messa in abisso. Ma il progressivo processo di fantasmizzazione intrapreso da Hathaway si rivela con fulgida evidenza già nella sequenza che precede l'uccisione di Sadak e del suo guardiaspalle Elias Kassar durante un affollatissima celebrazione cerimoniale. Qui Mann impedisce un'identificazione precisa delle angolazioni di ripresa e della conseguente disposizione reciproca dei personaggi. Il regista elabora delle tattiche di disorientamento della presentazione dello spazio al fine di creare una condizione di smarrimento sia ai due antagonisti quanto allo spettatore, sorpresi, tutti, di vedersi arrivare il protagonista alle spalle. Hathaway e Sadak sono quindi spinte cinetiche di contrasto, opposte costanti di dinamicità controllabili soltanto per mezzo di un preciso progetto architettonico, di una rigorosa struttura compositiva.

Probabilmente per Mann il cinema è una tappa del percorso evolutivo delle arti plastiche, per lui dirigere significa fare architettura, pensare il movimento aggressivo, la bellezza della velocità come ad un problema geometrico e formale. Nel suo cinema il quadro è sempre stato un luogo dichiarato per sperimentare nuove visioni capaci di attivare inedite tensioni epico-rappresentative precluse a una scrittura pur mobile e sapiente. L'architettura, per se stessa, del resto assomiglia alla regia cinematografica: entrambe predispongono e programmano i percorsi dello sguardo. Scriveva Le Corbusier: «gli occhi sono fatti per vedere le forme nella luce.» Mann rielabora un modo di guardare che è dei maestri del Movimento Moderno, il quale ha avuto, guarda caso, nella Scuola di Chicago (città natale del regista) alcuni tra i suoi maggiori interpreti. Da questi sembra, in particolar modo, aver ereditato, oltre ad un'idea di potere creativo declinato in termini di virilità, il principio di estetica funzionalistica che trova applicazione in un'idea di forma conseguente alla funzione. È in questa logica che vanno lette le figure seccamente tranciate, articolate in situazioni non immuni da schematismo, dei suoi ultimi film: si tratta di un lavoro di sottrazione, di sintesi formale che punta a cogliere le dinamiche nella loro purezza essenziale. Da qui la relativa autonomia del visivo rispetto al racconto. Questa forte capacità di stilizzazione gli consente di dare, pur nell'impeto di una concitazione espressionistica, a ogni opera, come in quest'ultima, una misura classica; di sfuggire agli stilemi di genere per affermare una solitaria chiarezza stilistica.