Politico, Recensione, Storico

I DUE PRESIDENTI

Titolo OriginaleThe Special relationship
NazioneGran Bretagna/U.S.A.
Anno Produzione2010
Durata93'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Bill Clinton e Tony Blair: una relazione speciale.

RECENSIONI

Peter Morgan torna al ritratto di Tony Blair, seguendo lo schema già usato in passato nelle altre due sceneggiature della “Trilogia di Blair”. Vale a dire: rapporto/conflitto con altra personalità di peso sullo sfondo di una o più crisi di vasta portata. Nel 2002, in The Deal (film per la tv diretto da Stephen Frears e mai uscito in Italia), l’antagonista era Gordon Brown (che poi sarebbe diventato il Ministro delle Finanze di Blair e il suo successore al vertice del partito e del governo) e l’inghippo da sbrogliare era l’enorme consenso del governo di Margaret Thatcher e il tentativo di riscatto del Labour Party. Nel 2006, in The Queen (ancora diretto da Frears), l’antagonista era Sua Maestà Elisabetta II, dinanzi alla morte di Lady Diana. In questo I due presidenti (che è di nuovo una produzione per la tv, trasmessa da HBO in USA e da BBC nel Regno Unito), l’uomo con cui deve confrontarsi Tony Blair è il Presidente degli Stati Uniti d’America Bill Clinton, l’uomo che ha riportato i Democratici al potere nel suo paese. Il rapporto speciale del titolo originale non è, ovviamente, soltanto quello cui fa riferimento la trita espressione diplomatica (cioè la particolare vicinanza, storicamente radicata, tra USA e Regno Unito), ma anche l’occasione politica peculiarissima che unisce due ambiziosi leader progressisti, giovani, abili comunicatori, innovatori all’interno del proprio partito e del proprio paese. Forse. Perché a ben vedere l’insinuazione di Morgan (che nelle prime bozze si inoltrava anche  nella descrizione del rapporto tra Blair e George W. Bush) è che l’ambizioso Blair sia pronto a piegare fine e sostanza della relazione con gli USA pur di preservarne la specialità. Tuttavia, lo schema di Morgan – che è abbastanza preciso, dosato e testato – prevede dell’altro. Innanzitutto, il confronto/conflitto tra Blair e l’antagonista di turno deve scaturire dalla complessa psicologia dei personaggi (non dagli eventi critici, che restano accidentali) e deve montare (progressivamente, senza fretta e possibilmente con qualche sfaccettatura ambigua) tra le maglie di dialoghi drammaticamente ben congegnati. Poca simpatia (anzi, modernissimo disprezzo) per i casus belli: mentre fuori impazzano scandali, genocidi e aspre contese politiche, protagonista e antagonista (e rispettive consorti) mantengono la calma, sviluppano complessità, soppesano i pro e i contro delle loro mosse, mescolano passioni (umane e civili) alla strategia. La regola quindi (che è poi un’ottima regola drammaturgica, c’è poco da dire) è che i conflitti montino in modo graduale, articolato e sfaccettato. Di conseguenza, i fatti scoloriscono. La drammaturgia di Morgan s’interessa degli uomini, del loro rapporto con le proprie ambizioni, i propri valori, il potere. La Lewinsky così come i massacri in Kosovo (così come la morte di Diana, così come la contesa interna al Labour Party) sembrano (e sono) mere occasioni per l’approfondimento psicologico del personaggio e lo sviluppo delle dinamiche di conflitto.

Eppure non è la visibile presenza dello schemino a fiaccare la forza de I due presidenti: piuttosto la sua robustezza meno che sufficiente. Il film aspira alla medesima, sobria onestà del precedente; svolge lo schema drammatico con dialoghi intelligenti; cerca puntelli allo schema nella performance attoriale (bravo soprattutto Quaid, qui; bravissima la Mirren nel film precedente). Ma è proprio lo schema conflittuale a riuscire un po’ slavato. Tra i personaggi di Blair e Clinton non frigge la necessaria elettricità (mancano i veri moventi divergenti, mancano – o non s’incastrano bene – le differenze di personalità, stile, educazione, valori – vale a dire ciò che muoveva per benino il meccanismo in The Queen) e tutto il resto (che dovrebbe far perno su questo singolo pilastro drammaturgico) zoppica di conseguenza. Gli eventi, poi, si rincorrono in fretta e furia (campagna elettorale, vittoria, rapporti con l’Unione Europea, scandalo Lewinsky, Kosovo, contesa elettorale tra Gore e Bush), rubando la scena (o, almeno, sottraendo la giusta concentrazione) allo svolgersi dell’incontro/scontro tra i due. La compattezza di tempi e luoghi è strutturalmente essenziale allo schema di Morgan (non soltanto quando si ha a che fare con Tony Blair: come in Frost/Nixon, scritto da Morgan per il teatro e poi adattato da Ron Howard, e che rientra pienamente nel meccanismo), l’eccessiva ricchezza di temi ed eventi corrode l’efficacia del suo intento. Importanza e varietà degli eventi finiscono per ridurre i duellanti a duettanti con funzione illustrativa: infotainment storico rivolto al passato prossimo. Aspettiamo il prossimo duello, sperabilmente nel chiuso di una stanza, nell’arco di una notte.

Terzo atto dello sceneggiatore Peter Morgan dedicato all’ambigua figura di Tony Blair, dopo The Deal (inedito da noi) e The Queen: prodotto, come il primo, per il piccolo schermo, in Italia è uscito al cinema. Si parte ancora con una citazione colta (stavolta di Oscar Wilde) per descrivere, dopo quella con la regina, un’altra “relazione speciale” del primo ministro inglese. Morgan ha il talento della sintesi nel concentrare, romanzandoli, i punti salienti della (di una) Storia recente: non è facile drammatizzare, intrattenendo, le allusioni, i dialoghi e gli eventi riguardanti fatti politici. Lo scrittore è meno afferrato nel disegnare le psicologie delle sue figure di primo piano nel momento in cui le manifesta, quasi esclusivamente, attraverso le decisioni politiche che prendono, affidandosi ad una “sceneggiatura” già scritta dalla cronaca: al contempo, per portare avanti le proprie tesi, le affida alla semplificazione eccessiva quando si tratta di emozioni e sfera privata (vedere come è raffigurato Blair nella prima parte: uno scolaretto che idolatra Clinton e pende dalle sue labbra). L’ambiguità del personaggio di Michael Sheen, infine, è affascinante ma resta irrisolta: parte, come detto, da ingenuo, finisce con il superare il maestro fra valore della pace e idealismo (l’interventismo in Kosovo) trasformandosi, agli occhi di Morgan, in “eroe”, acquista una luce sinistra nel finale (Loncraine ci mostra un vero documento, in merito) quando cerca di ricreare la “relazione speciale” anche con Bush (Clinton: “Non so se sei mai stato di sinistra e progressista”). Morgan ha senz’altro una predilezione per le “first lady”: capiscono in anticipo, non sono preda di facili entusiasmi, sanno gestire i loro uomini e le crisi.