Biografico, Drammatico, Recensione

THE FRONT RUNNER

Titolo OriginaleThe Front Runner
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2018
Durata113'
Soggetto tratto dal libro All the Truth Is Out: The Week Politics Went Tabloid di Matt Bai
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Il futuro prossimo del Democratico Gary Hart potrebbe aprirgli le porte della Casa Bianca alle presidenziali del 1988. Ma, in poche settimane, la scoperta e la grande risonanza mediatica di una relazione extraconiugale con la giovane Donna Rice lo costringono a fare un clamoroso passo indietro.

RECENSIONI

Tra i Democratici, quella volta, era il candidato favorito, dopo averci provato già quattro anni prima per le presidenziali del 1984. In America qualcuno lo ha poi definito il "grande presidente americano che non è mai stato". Classe '36, amico di Warren Beatty e senatore del Colorado dal '75 all'87, Gary Hart, idealista e pragmatico insieme, è una Storia che non si è realizzata; senz'altro, però, la sua vicenda politica e mediatica più di trent'anni fa conteneva già molto del futuro. «Quello è stato il momento in cui la terra sfuggiva velocemente sotto i piedi di chiunque; e poi, il mondo divenne un luogo diverso. Nel 1987, andava in onda A Current Affair, il primo spettacolo di notizie di gossip, si cominciavano ad usare i camion con i satelliti per le trasmissioni video, la CNN dava ai suoi reporter telefoni satellitari per la prima volta, si impose la prima generazione di reporter cresciuti con il mito di Woodward e Bernstein e c’erano nuove forze femminili che avrebbero cambiato il mondo del lavoro. Tutte queste cose stavano succedendo nello stesso momento, e tutte insieme crearono le condizioni che sfuggirono all'attenzione di Hart». Così si esprime Jason Reitman, che ha tratto The Front Runner - Il vizio del potere dal libro All the Truth Is Out: The Week Politics Went Tabloid del giornalista Matt Bai (anche sceneggiatore del lungo, insieme al regista e a Jay Carson).

Un film su un uomo politico e sul potere, quello di Reitman (Thank You for Smoking, Juno, Tra le nuvole, Tully), anche se il "vizio" che la distribuzione italiana si inventa rischia di confondere le acque, addirittura di ribaltare la prospettiva, di promettere un film che non è. Perché qui, quel potere (ovvero il suo, di Hart: ma attenzione, non è lui a rappresentarlo, ne è invece rappresentato) non ha vizio; o meglio, al regista non interessa stabilire se ne abbia o no, e in che forme. Quel potere scopre, dunque, di essere inaspettatamente debole. Non siamo tuttavia dalle parti di The Post né della bufera Watergate, di poco successiva agli eventi raccontati nel film di Spielberg. Non siamo nei primi anni Settanta. No, perché The Front Runner dispone, con acutezza stringente, una fusione quasi neutra, diciamo, che si manifesta tanto logica quanto insensata, tra l'Hart uomo e l'Hart politico. Se la distinzione tra pubblico e privato non esiste, tutto vale. E sì, è un film sull'"attenzione" di Gary Hart, questo, per tornare alle parole di Reitman. Su un'attenzione impossibile, parziale, sulla realtà aumentata che inghiotte il personaggio interpretato con una intensità molto concentrata, molto essenziale, da Hugh Jackman. È un film teorico, magari anche un po' programmatico e programmaticamente poco progressivo, più intelligente che avvincente, forse più saggistico che istantaneamente narrativo. È un film che accumula voci, volti, dialoghi, corpi, ambienti, nomi, in una geometria di racconto e messa in scena apparentemente regolata ma che, nel profondo, sembra essere più una spirale che trascina senso e verità, mediato e immediato, essere e fare. È multiprospettico The Front Runner, perché è un film sul suo protagonista, ma anche nonostante lui, su ciò che vediamo e non vediamo, ascoltiamo e non ascoltiamo, su ciò che sanno e non sanno gli altri personaggi del film, sulla loro ricezione, sugli uomini e le donne in un'opera che sembra una mappatura, che transita da una figura all'altra, dalla cronaca alla crisi domestica, dall'ascesa promessa alla caduta rapida, dalle luci volgari delle telecamere a un'intimità ancora inviolabile, non manipolabile. Sua moglie Lee (Vera Farmiga), l’amante Donna Rice (oggi - ma da molti anni - impegnata nella tutela di bambini e minori dai rischi del Web; nel film, interpretata da Sara Paxton), i giornalisti pedinatori e quelli che hanno dubbi, lo staff elettorale di Hart (ottimo come sempre J.K. Simmons, a capo della squadra): tutti, qui, perdono.

Radiografia di un punto di non ritorno: antropologico e culturale; di un’America conservatrice di fine anni Ottanta, che avrebbe poi alle elezioni premiato ancora i Repubblicani con Bush padre, dopo gli otto anni di Reagan;  un'America che è già, senza ancora saperlo, quella di  Bill Clinton e Monica  Lewinsky. È la parabola di un uomo dentro un rapporto oramai scompensato tra politica e (i cinici, inebetiti) mezzi di comunicazione. Un film di ambiguità, ma non ambiguo; né thriller né drama, né dicotomico né conciliante. Un film morale, senza bisogno di dimostrarlo.  E che, del resto, ci dice  anche del nostro presente, epoca che ha consacrato la mutazione dello scandaloso in scandalistico, del discorso in gossip, della presunzione e del sospetto in intrattenimento dogmatico e ottuso. Ma se il Quarto potere non esiste più, la politica è infantile e l’opinione pubblica ha cambiato nome (“social”), ecco che post e tweet, WhatsApp e Instagram Stories possono definire a loro piacimento il mondo. E al momento, non può esserci Miami Herald che tenga. #TheFrontRunnerToo?

Declinazione, a tempi più complicati e moralmente grigi, di un filone illustre rappresentato, fra gli altri, da Il Candidato con Robert Redford, passando per la sua copia in negativo Tutti gli Uomini del Presidente, con il giornalista Bob Woodward del Washington Post a fare da staffetta. I tempi sono cambiati e anche il giornalismo si adatta assecondando i desideri del pubblico, fomentandoli con gli scandali e perdendo di vista la sostanza politica (il sottotitolo italiano non ha colto il problema, dimostrando la tesi). Quello di Jason Reitman è un j’accuse efficace e mai semplicistico, ben esemplificato nel discorso finale di Gary Hart: il suo testo (è anche co-sceneggiatore) mette sul piatto un contraddittorio, come nella scena in cui il giornalista di Mamoudou Athie, contrario al gossip scandalistico, chiede lumi sull’importanza della moralità coniugale in un’arena politica. A livello cinematografico e narrativo, soprattutto in apertura, l’opera imposta la classica coralità di voci per analizzare i diversi “team”, quello giornalistico, della campagna elettorale e quello familiare. In seguito, si concentra maggiormente sul protagonista, sulle sue tesi, sul suo impegno per il bene del paese mentre viene sommerso da un fango che si rifiuta di commentare, ottenendo l’inasprimento degli avversari: costretto alle corde, anche per non danneggiare la famiglia, rigetta il tutto senza compromettere la propria integrità. Fra le tante belle battute della sceneggiatura, che si occupa di etica come quasi tutti i film di Reitman (qui riesce anche a infilare, in modo sobrio, pizzichi dell’amata commedia), risuona a lungo il monito di Hart su di un sistema di campagna elettorale che, favorendo la logica dei paparazzi nascosti nei cespugli, fa in modo che menti brillanti del paese rifiutino a priori di candidarsi per non subire l’artificiosa arena dei leoni.