TRAMA
Lo stregone Gandalf, nonostante le resistenze, recluta lo hobbit Bilbo nella compagnia dei nani, intenzionato a riconquistare il regno dei suoi avi e scacciare l’usurpatore Smaug.
RECENSIONI
(Una premessa: non ho visto il film di Peter Jackson come lui intendeva che fosse visto, cioè in hfr 3d. Per due motivi fondamentali: 1. nessuna sala a mia disposizione nel raggio di un centinaio di km lo proiettava in 48fps 2. ho maturato negli ultimi 5 anni una sfiducia inesorabile nel mezzo stereoscopico, incapace, perfino se nativo, di farsi realmente valore aggiunto o elemento espressivo significativo – con la possibile eccezione di Coraline e la porta magica e Il regno di Ga'Hoole – La leggenda dei guardiani. Non entrerò quindi nel merito della questione tecnologica, avendo visto il film in due banalissime dimensioni).
C'è una scena magnifica in Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato, dove il celeberrimo aforisma “Siamo nani sulle spalle di giganti” trova la sua, inaspettata, raffigurazione cinematografica. È il momento in cui, all'incirca a metà della pellicola, la compagnia composta da Bilbo Baggins e i 13 nani si ritrova ad affrontare l'impervio sentiero sulle Montagne Nebbiose, per di più funestato da una violentissima tempesta. Non di temporale, però, si tratta: bensì della furia, forse solo giocosa, di un popolo di giganti di pietra che vivono tra le montagne, scagliandosi massi e tuoni uno sull'altro. Mentre i veri nani di Erebor si dibattono sulle sdrucciolevoli spalle di giganti rocciosi, viene da chiedersi se Peter Jackson si senta nano e su quali spaziose spalle ritenga di essersi arrampicato, lungimirante eppure debitore. Risalito a bordo del progetto dopo una riluttanza durata anni (il progetto di Lo Hobbit era inizialmente affidato a Guillermo Del Toro), psicologicamente e fisicamente provato dall'esperienza produttiva della trilogia che l'ha ripagato sconquassando i botteghini, Jackson appariva prosciugato come Gollum e si era definitivamente librato dalla Terra di Mezzo per affondare nella materia spugnosa e celestiale dell'imperfetto ma accorato Amabili resti. Difficile credere che potesse, come autore, avere ancora qualcosa da dire sull'universo tolkieniano. Difficile credere che potesse far pulsare coi battiti del suo cuore una macchina commerciale sostanzialmente già avviata anche senza la sua presenza al timone. Difficile anche credere che fosse sua, e dettata da esigenze espressive, la (remunerativa) scelta di spalmare un romanzo lungo un quarto di Il Signore degli Anelli su una trilogia dal minutaggio previsto di almeno 500'. A queste cose difficili da credere, ci siamo ritrovati a credere dopo la visione di Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato, ed ecco perché.
Lo Hobbit non è un romanzo epico. Rispetto a Il Signore degli anelli, appartiene al versante avventuroso del genere fantasy e si potrebbe più facilmente piazzare sullo scaffale di letteratura per ragazzi. Se la prima trilogia costringeva a un'operazione di adattamento colossale e per certi versi impossibile, a condensare personaggi di shakespeariana complessità e il concetto di Male assoluto nell'arco di tre film per un vasto pubblico, il minuto Hobbit pone problemi differenti. J.R.R. Tolkien, professore e creatore di mondi, l'ha scritto come una favola moderna, dal ritmo serrato e incurante delle atmosfere, con 13 nani poco distinguibili se non per i nomi e il colore dei cappelli, un protagonista antieroico e comprimari che non hanno bisogno di aggettivi o scavo psicologico poiché il loro nome è tautologica descrizione della loro funzione narrativa. Così gli Uomini Neri, il Signore degli Orchi, il Signore delle Aquile etc. semplicemente esistono in quella dimensione di avventura archetipica, pura e avulsa da metafore ed epica, come afferma con ineffabile (im)precisione Bilbo correndo fuori da casa sua: “Sto partendo per un'avventura”. A Peter Jackson si pone un notevole problema: quel tipo di rutilante avventura fantasy dall'impianto ingenuo e magico non esiste più da un pezzo, al cinema, e la colpa è proprio sua, di Jackson medesimo. La trilogia del Signore degli Anelli ha rimodellato gli standard del genere, rilanciando il fantasy ma modificandolo in modo permanente: l'impianto realistico, le location riprese dal vero, le battaglie cruente e il respiro epico dei tre film usciti tra il 2001 e il 2003 hanno influenzato il fantasy di tutto il decennio a seguire: da Le cronache di Narnia a King Arthur, da La bussola d'oro alla saga di Harry Potter, anche i prodotti dal target più smaccatamente infantile hanno adattato la materia al nuovo corso dettato da Jackson. Che si è trovato di fronte a una complicata coreografia intellettuale: fare un passo indietro, per farne tre avanti. Come si rieduca alla meraviglia dell'avventura un pubblico assuefatto al fantasy come epica magniloquente? Può il fantasy riscoprire la sua età dell'innocenza?
Jackson fa un passo indietro, torna alle fantasie fiabesche delle sue principesse psicotiche di Creature del cielo, riscoperchia l'immaginario degli ingenui e grotteschi anni 80, apre il suo prequel come una fiaba della buonanotte e lo orchestra con grazia guidando alla riscoperta del meraviglioso. Con dispendio di effetti speciali, sì, ma con una messa in scena che pare dimenticarsi della iperconsapevolezza delle generazioni più giovani, esponendosi al rischio di essere derisa perfino da un pubblico di minorenni disincantati. Scatenando una pletora di creature immaginifiche e mostruose, dal look digitale ma curiosamente innocuo, vintage ed essenziale (dal Re degli Orchi ai fiabeschi giganti di pietra di cui si parlava poco sopra): un'ispirazione che sta tra il Maestro di sempre per Jackson, Ray Harryhausen, le atmosfere di La storia infinita o di Labyrinth – Dove tutto è possibile e l'action giocoso e illogico degli Spielberg & Lucas di Indiana Jones. Fin dalla fase di scrittura, che come sempre rivela un'intelligenza e sensibilità rare nell'approcciarsi all'opera tolkieniana, Jackson si muove nella medesima direzione: di tutti i personaggi che poteva reintegrare, tra quelli epurati nella precedente trasposizione dal Signore degli anelli, sceglie il più ingenuo di tutti, ovvero Radagast, stregone di rango minore e minore importanza, e fa di lui una macchietta ai limiti del camp, ricoperto di guano e strafatto di funghetti allucinogeni, alla guida di una slitta trainata da conigli. Il suo segmento nel bosco, tra incantesimi e ragni sovradimensionati, è un piccolo cortometraggio a sé stante in cui cinema e magia sono un tutt'uno. Del lungo prologo nella Contea, e nella fattispecie in casa Baggins, conserva perfino l'esibizione canterina dei 13 nani, peraltro utilizzando il testo originale della canzone di Tolkien – un momento pseudo disneyano che si fa emblema dell'intera operazione di reinvenzione del materiale fantastico in senso ludico (si consideri che l'unico altro momento canoro rilevante, nella precedente trilogia, era stato lo straziante canto di Pipino mentre gli eroi di Gondor andavano al massacro in guerra).
Proprio nella sua diversità con la trilogia del Signore degli Anelli sta la potenziale grandezza dell'operazione jacksoniana – potenziale perché solo accennata, e perché offuscata da altre necessità. Se, infatti, è ovvia e naturale la scelta di intensificare rispetto al romanzo la rilevanza narrativa di Bilbo Baggins, che permette alla classica quest di farsi romanzo di formazione in piena regola, stridono di più i tentativi (vogliamo credere, anche imposti dalla produzione) di raccordare questo primo capitolo al suo equivalente La compagnia dell'anello. Nella scansione degli eventi e nella presa di coscienza della missione del gruppo, Un viaggio inaspettato ricalca il modello in modo talvolta innaturale, indebolendo la volontà di Jackson di fare di Lo Hobbit un prequel perfettamente autonomo dalla trilogia precedente/successiva. Nonostante ciò, Un viaggio inaspettato riesce nell'intento di azzerare e fare reboot della mitologia della Terra di Mezzo, obbligandoci tutti, in modo programmatico, a imparare come si parte per un'avventura.
Sosteneva Jean-Luc Godard, ai tempi della rappresentazione analogica: «il cinema è la verità 24 volte al secondo». Oggi Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato è cinema digitale a 48 fps. Il doppio. In 3D. Della verità, ovviamente, è saggio non parlare: se il passaggio dall'analogico al digitale è - ottuso chi non lo crede - una radicale riformulazione ontologica del medium (cos'è, oggi, il cinema?), una rivoluzione che fa impallidire le discussioni sulla ridefinizione tra muto e sonoro (per non dire di quelle su b/n e colore), il raddoppiamento dei frame al secondo è caratteristica decisamente considerevole in un'arte che, elementarmente, è quella delle immagini in movimento. Lo standard dei 24 fps è stato raggiunto nel 1927 e reso stabile nel 1930 per accordarsi all'introduzione del sonoro, un considerevole numero tra le televisioni a 25 fps o oltre sono addomesticate a questo paradigma, i videogame sono settati a 30 fps, ma trattasi comunque di altro campo da gioco: di fronte ai 48 fps in stereoscopia di Lo Hobbit si comprende, oscenamente, come la cinematografia abbia sedimentato nelle nostre aspettative determinate caratteristiche, come non sia unicamente una questione di affastellamento culturale, ma anche, soprattutto, banalmente, percettivo. I 48 fps donano nitore inedito all'immagine, sfidano quegli effetti, quei difetti, quelle balbuzie che il linguaggio cinema aveva commutato in proprie caratteristiche (le sfocature, l'indistinto di certi movimenti di macchina eccessivamente veloci, trasformati dall'abitudine e dalla convenzione in accettabili – e significanti - effetti grafici: si pensi al portato semantico delle panoramiche a schiaffo, dove tra A e B, c'è solo puro, violento, concreto movimento). (Trovate qui le differenze, divertivi).
L'aumento di definizione, nello spettatore, crea disorientamento, soprattutto di fronte a un film come Lo Hobbit, che è letterararia e letterale creazione di un mondo oltre la realtà: i 48fps sottraggono fantasia alla fantasia, portano a un'iperrealtà che riconfigura la sospensione dell'incredulità e, dunque, l'esperienza cinematografica. Come la visione stereoscopica induce l'occhio a una maggiore attività dello sguardo, e, a forza di cose, ostacola quel sonno/veglia che è (stato) il guardare cinematografico, l'eccesso di definizione non produce immediatamente immersività, ma conduce a un cortocircuito brechtiano: i personaggi di Lo Hobbit ci appaiono come ridicoli cosplayer (qualcuno dice persino Teletubbies), come attori trasformati da trucchi e posticci in personaggi, come goffi corpi in costume su un palcoscenico teatrale. Per credere alla bugia illusoria non è necessario vedere, ma fingere di non vedere l'artificio, come di fronte a uno spettacolo di magia povera: così è sempre stato, così è ancor di più, faticosamente e in maniera nettamente percepibile. L'effetto straniante che in Nemico pubblico di Mann, dove il digitale pareva andare contro il cinema in costume, appariva come precisa scelta poetica, con i 48 fps di Lo Hobbit, soprattutto nei momenti di stasi antropocentrica, denuda il baraccone creato da Jackson e lo mette, ci mette, in imbarazzo. La questione, ovviamente, è nei nostri occhi, nel rapporto tra l'educazione a cui sono stati sopposti in 90 anni di cinema e questo film, se e solo se visto nelle sale adeguate alla proiezione concepita da Jackson (in 2D, al limite, troverete una composizione del quadro pensata per la stereoscopia e dunque probabilmente snaturata). Lontano dall'essere una metanarrazione tecnologica alla Avatar (come per il digitale sono i film di Zemeckis, come per il 3D è l'Hugo Cabret di Scorsese), Lo Hobbit, con la sua ingenuità narrativa primaria, è pura avanguardia industriale, una vera e propria prima volta, un film di confine: se non c'è stato un pre e un post Avatar, ci sarà un pre e un post Lo Hobbit. Per quel che vale.
(Il film no, non mi è piaciuto. E il voto si riferisce a questo fatto decisamente marginale).
Nel trasporre “Lo Hobbit” (1937) di J.R.R. Tolkien dopo varie peripezie (Guillermo Del Toro, regista designato, ha lasciato dopo tre anni di pre-produzione), pensando ad una nuova trilogia nella Terra di Mezzo a partire, però, da un solo volume, Peter Jackson compone un’opera filologica e ponderata, pescando anche da racconti incompiuti, da appendici (le origini di Azog) od omissioni (lo stregone Radagast) de Il Signore degli Anelli, anche inventando (più corpo ai nani protagonisti; la slitta di Radagast trainata da conigli). Ma, paradossalmente, avendo dichiarato che il libro, per umore e stile, è molto differente dalla trilogia più nota, finisce per comporre un mero prequel che prequel non è, calcando troppo le orme della saga precedente fra compagnia, viaggio, meta precisa, forze oscure in atto, il principe dei nani che ha lo stesso ruolo di Aragorn e così via: fattore saldato dal volere, anche, immettere nella trama personaggi della trilogia precedente, finendo per fotocopiare molte situazioni (il passaggio della compagnia per Gran burrone degli Elfi, ad esempio). Avendo a che fare con un racconto meno sorprendente e generoso, poi, è maggiormente in evidenza il lavoro affabulatorio, mirato a replicare un successo anziché un approccio appassionato, fra stasi con sentimenti, legami d’amicizia che devono nascere e, d’obbligo, il momento dell’azione spettacolare, anche fine a se stessa, vedi la spielberghiana (perché più ludica e meno epica) messinscena di una “montagna russa” fra ponti sospesi e azioni veloci (e impossibili) da videogioco, contro orchi che cadono come birilli manco si fosse in Asterix. L’alibi potrebbe essere l’imprinting molto più leggero e da commedia fiabesca del romanzo di base (che, alla sua uscita, venne accolto come libro per bambini): ci son pure sprazzi musical, con canti che immettono in un mondo disneyano. A quanto pare, poi, per sfruttare la figuratività 3D, il regista ha sacrificato azione e personaggi (e “corposità”: il CGI, per la tridimensionalità, è stato preferito ai modellini in scala): l’effetto è, sì, magnifico quando sottolinea totali paesaggistici abissali, enormi interni cavernosi o le scenografie della fortezza sotterranea dei nani, ma da uno sperimentatore come Jackson ci si aspettava qualcosa di più rivoluzionario. Grande spettacolo, discrete emozioni, niente di veramente nuovo, con scene però da ricordare: la battaglia dei giganti di pietra, la scena delle aquile che (ancora) vengono in soccorso di Gandalf, l’apparizione di Galadriel (un momento magico per l’intimità e la complicità che instaura con Gandalf) e quella, superba, di Gollum (con Andy Serkis che supera se stesso), con espressioni al contempo buffe ed inquietanti. In Dvd una “extended edition” con 13’ in più.