Avventura, Fantasy, Recensione

KONG: SKULL ISLAND

TRAMA

1973: Una spedizione capitanata dall’agente governativo Bill Randa ha come obiettivo l’esplorazione di un’isola misteriosa, chiamata Skull Island.

RECENSIONI

Per molte generazioni di cinefili, King Kong rappresenta l’emblema e insieme l’archetipo del Cinema Avventuroso e dell’Amore per il Cinema. La capacità di emozionare, di intrattenere e insieme di riflettere su se stesso e sulle proprie potenzialità, l’epidermico che va a braccetto con la lettura metaforica, il grado zero che diventa secondo o terzo senza percettibili scarti di livello: King Kong è (sempre stato), fondamentalmente, questo. Ha esplicitato bene la cosa Peter Jackson, quando girò il suo King Kong (2005), una versione magnificata e anabolizzata del prototipo (1933) del quale faceva esplodere i sottotesti, l’autoreferenzialità e l’erotismo zoofilo, tra citazioni letterali e scolastici esempi meta-cinematografici. Un vero, sentito e forse non completamente capito Atto d’Amore, quello del regista Neozelandese, per il personaggio di Kong, per il Monster Movie, per il Cinema Classico e, più in generale, per il Cinema Tutto.

Curiosamente, però, l'alleggerimento su cui ha puntato Jordan Vogt-Roberts per il suo Kong è già in controtendenza rispetto al Godzilla (2014) di Gareth Edwards, primo capitolo della tetralogia del MonsterVerse programmata dalla Legendary Pictures, che invece abiurava Emmerich, azzerava l'ironia e tornava a Ishiro Honda con un piglio tra il serioso e l'indeciso sul da farsi. Skull Island, invece, sembra deciso nel suo non prendersi troppo sul serio e nel suo non essere particolarmente ossequioso rispetto all'originale, con un Kong sovradimensionato (dimensioni Godzilliane, probabilmente dettate dallo scontro tra titani programmato per il 2020, Godzilla vs. Kong) e quasi umanizzato, nel sua consapevolezza di essere The King of Skull Island e nei suoi gesti di pietà/magnanimità.

Il punto, diciamo, è un po’ questo: Skull Island è solo sulla carta un film leggero, quasi sbarazzino e riuscito. In realtà, quello che gli manca è probabilmente un’”anima”. I personaggi umani sono inconsistenti e ininfluenti, nessuno di loro, e nessuna delle vicende nelle quali sono coinvolti, sembra capace di suscitare un seppur blando interesse. Protagonista assoluta del film è, appunto, l’Isola e le sue Creature, l’azione parossistica, gli scontri larger than life spesso mutuati, nelle dinamiche coreografiche, proprio dal film di Jackson, dal quale però erompeva tutto un altro fanatismo cinefilo (in tutte le le accezioni del termine). Fa da contorno molta ironia esplicita, dalla qualità altalenante, ma sostanzialmente impalpabile e scritta con sufficienza, capace di strappare qualche sorrisetto di circostanza.
Kong: Skull Island è insomma un monster movie gradevole ma etereo, privo di una vera personalità che non sia una generalizzata “leggerezza”, non sempre declinata positivamente. Sui titoli di coda, la canonica sequenza anticipatrice introduce il prossimo capitolo del MonsterVerse, Godzilla: King of the Monsters (2019).

La Legendary Productions, dopo aver affidato al giovane Gareth Edwards il reboot di Godzilla (in cui compariva già il programma Monarch), scommette su King Kong e su Jordan Vogt-Roberts che, con The Kings of Summer, miscelava commedia ed avventura nella natura selvaggia. Con l’ausilio dei milioni a disposizione, il regista sforna un ottimo prodotto di intrattenimento, abile nel coniugare la logica spettacolare del pericolo e della meraviglia (eccellenti effetti digitali) con il disegno di caratteri variegati ed in conflitto, e nel dosare la narrazione sul filo della commedia, mai troppa a scapito del pathos, mai poca per assicurare spensieratezza nonostante drammi e tragedie (l’orrore c’è, ma non è fine a se stesso e non disturba). Come nei migliori film di genere, poi, i criteri del parco giochi lanciano anche un “messaggio” più serio: se è sotto accusa la natura guerrafondaia dell’essere umano che, quando il nemico non c’è, lo va a stanare, è merito di Dan Gilroy alla sceneggiatura, più che dei colleghi Max Borenstein (il Godzilla citato: temi esili) e Derek Connolly (altro reboot tanto di successo quanto mediocre: Jurassic World). Kong entra in campo subito, maestoso e regale, e abbatte chi ha bombardato senza motivo la sua isola, alfiere dell’ecologismo e dell’animalismo ma, per la sua nemesi (il colonnello di Samuel L. Jackson, di stanza nel Vietnam dove si gira, oltre che alle Hawaii e in Australia) è anche l’allegoria della guerra perduta con ossessione alla Moby Dick. Queste riflessioni e varie situazioni in cui la carneficina non chiama pietà sono le anomalie che impreziosiscono un film di genere già di suo godibile per ritmo (si saltano i preamboli per entrare in un moto perpetuo di causa ed effetto, con copiose sorprese), efficaci registri fra serio e faceto, meraviglia ed epica natural-digitale (con rimandi ad Apocalypse Now: Tom Hiddleston si chiama Conrad). Più grande (30 metri) e più eretto, questo Kong batte tutti gli altri nel look: mix di CGI e motion capture “recitato” nei movimenti da Terry Notary (ex Cirque du Soleil) e, per le espressioni, da Tobi Kebbell. L’ambientazione nel 1973 non è casuale: fu l’anno in cui la Nasa lanciò il programma Landsat per mappare, per la prima volta e dallo spazio, tutta la Terra.