Drammatico, Fantascienza, Recensione

AD ASTRA

Titolo OriginaleAd Astra
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2019
Durata123'
Scenografia

TRAMA

Futuro prossimo. Un astronauta parte alla volta di Nettuno alla ricerca del padre che non vede da tantissimi anni. Forse, sì, è ancora vivo…

RECENSIONI

Fra le produzioni di Two Lovers (2008), suo film di frattura, e C’era una volta a New York (2013), salto indietro nel tempo: è in questo periodo che James Gray ed Ethan Gross, futuro co-sceneggiatore dell’opera che in seguito verrà, pensano a un film ambientato nello spazio. «La scintilla» definitiva, poi, come racconta Gray intervistato da Marco Consoli per “il Venerdì di Repubblica”, scatta nel 2011, scoprendo che «Enrico Fermi, parlando a proposito della divisione dell’atomo e del test della bomba nucleare, affermò che c’era il 90 per cento delle possibilità che l’esperimento non avrebbe distrutto il sud-est degli Stati Uniti. La percentuale fu giudicata rassicurante per procedere con i test. Ho pensato quanto fosse bizzarro che avessero accettato il 10 per cento di probabilità di sterminare milioni di persone». E Ad Astra è un film sulla catastrofe. Sulle catastrofi. Quelle del mondo, quello del singolo, dell’uomo. Catastrofi in corso, imminenti, o passate. Senza essere terminale, senza tantomeno essere davvero fantascienza, sempre facendosi cinema che avviene, che si avvera. Tra l’affermazione di morte e la ricerca di vita (propria o altrui), non può che arrivare, Ad Astra, dopo Civiltà perduta (2016), lontano dalla New York del regista e del suo cinema precedente, da quella città che lui stesso ha definito la sua gabbia creativa. E allora, dopo l’abisso nella giungla in Sudamerica, ecco quello tra le stelle. Dopo il passato, il futuro. Dopo Percy Fawcett, realmente esistito, Roy McBride, figura  immaginata. Dopo il padre scomparso di Civiltà perduta, quello di Astra, film entrambi co-prodotti da Brad Pitt, che per l’opera del 2016 era stato inizialmente pensato per interpretare il protagonista (ruolo infine passato a Charlie Hunnam) e nell’ultima è invece figlio del più grande astronauta della storia, Clifford McBride (Tommy Lee Jones), un Capitano Achab dello spazio, come dice Gray, un altro padre con la sua sconfinata ossessione: individuare forme di vita intelligente da Nettuno. Clifford è partito da quasi trent’anni, da sedici è scomparso.
E il figlio, per raggiungerlo, arriva dapprima sulla Luna che - spesso lo ignoriamo - è fatta principalmente dello stesso materiale terrestre, eppure il cinema l’ha vista prima di noi. Ci sono i pirati, sulla Luna, c’è violenza, risorse naturali da conquistare, una sequenza da film di inseguimenti come falso movimento action, ma Roy si salva e arriva su Marte, tentando da lì di mettersi in contatto col padre, mentre sempre più chiari si fanno i piani impietosi  del governo: così Roy, in principio una pedina, ora va allontanato dalla missione perché troppo emotivamente coinvolto. Ed è da questo suo inviare una, due volte, un messaggio nel vuoto dello spazio a suo padre che Ad Astra diventa ancor più sottrazione - non solo di gravità -  e, poi, dissolvimento del senso, fino alla decostruzione di sé stessi quando il viaggio che si intraprende è il più duro, il più intimo, il più straziante. E Gray, che sempre più sembra diffidare degli uomini e del loro tempo, continua ad amare invece questi suoi soggetti smarriti, perché soffre con loro, perché loro soffrono con lui. Esistono in una vita tra Joseph Conrad e Terrence Malick, tra voice-over e ricordo, solitudine e (auto)inganni; pregano, questi astronauti, e hanno bisogno che Dio sia loro accanto.

Eppure Brad Pitt potrebbe star seduto su una sedia davanti a uno psicoterapeuta e non muoversi mai da lì, andare lo stesso per lo spazio bianco a cercare la sua radice, il Padre, e ugualmente trovarlo o non trovarlo, perché il punto non è questo (siamo sicuri infine che lo incontri davvero? E se questo viaggio, se tutto questo  fosse solo immaginazione?), ma il vuoto che ha generato il non averlo, non sentirlo scorrere nelle vene della cura. Gray intercetta quel vuoto, lo crea, lo pressurizza come pressurizza il thriller, il dramma, l’esistenza del protagonista, e vi caccia dentro – disarmandolo –  anche lo spettatore. Il vuoto si può attraversare in perfetta solitudine e silenzio intergalattico, si può camminare restando in un miracoloso equilibrio tra i pianeti quando invece sappiamo che ci potrebbe inghiottire, cannibalizzare come se non fossimo mai esistiti. Il vuoto è lì sin dal principio quando l’astronauta Roy ci cade, macinando centinaia di metri in discesa libera; e tuttavia non è un nemico mai, in fondo, per lui, perché è la parete soffice dell’atterraggio, prima o poi, quando nella ottundente e sconfinata semplicità dell’assunto esso si riempie di vita e di amore.  «Ti voglio bene, Bobby», «Anch’io ti voglio bene»: su questo legame profondissimo, sulle parole straordinariamente  nette, semplici, chiare, dei due fratelli che avevano perso il padre, si chiudeva I padroni della notte (2007). «Io vivrò. E amerò», dice invece Roy, in una nuova, splendida, anularità grayiana di inizio e fine. Ha viaggiato all’origine di sé stesso come il protagonista di 2001 Odissea nello spazio viaggiava all’origine dell’umanità per poi ritrovarsi, nelle stanze del tempo. Ha viaggiato come tutti i viaggiatori, che la partenza e l’approdo ce l’hanno dentro sin dal principio e non espandono che sé stessi nel compimento della traiettoria, terrestre o orbitale che sia. E se Tommy Lee Jones è Odisseo impigliato nelle colonne d’Ercole per sempre, suo figlio è Telemaco che prima lo cerca e poi ritorna a casa, smesso l’adolescente, conquistato l’uomo che sarà, dopo il padre, nonostante il padre. Roy McBride, un astronauta, ritorna.