Documentario, MUBI, Recensione

JOHN MCENROE – L’IMPERO DELLA PERFEZIONE

Titolo OriginaleL'empire de la perfection
NazioneFrancia
Anno Produzione2018
Durata95'
Fotografia

TRAMA

Gil de Kermadec è stato un cineasta appassionato di tennis che aveva creato un metodo di osservazione delle posture dei tennisti con finalità didattiche. A un certo punto però decise di rinunciare alle riprese finalizzate allo scopo per seguire invece dal vero ciò che un campione faceva nel corso di una gara. Il soggetto prescelto fu John McEnroe.

RECENSIONI

Il Fantasma del Movimento

Lo sport è verità centoventi volte al secondo.
Forse quest’idea, legata alla scomposizione cinematica, già aleggiava nella testa di Etienne Jules Maray, mentre conduceva i suoi studi sul movimento. Le riprese cronofotografiche impiegate nell’analisi della locomozione umana che lo scienziato francese produsse in collaborazione con George Demeny costituiscono, per due ragioni, i prodromi della ricerca condotta anni dopo da Gil de Kermadec (primo direttore tecnico della federazione francese di Tennis) sul gesto atletico dei tennisti professionisti. La prima è una ragione di natura quasi sovrannaturale: l’impianto del Roland Garros, il maggiore dei tornei di tennis giocati sulla terra battuta, sorge infatti su quella che fu la base operativa di Maray, ovvero il Campo dei Principi; la seconda, invece, riguarda l’ossessione per l’accumulo di dati cinematici ottenuto con l’ausilio di mezzi cinematografici.
La sequenza sui titoli di testa di John McEnroe – l’impero della perfezione racconta già tutto: i diversi punti macchina che Kermadec utilizza per filmare il servizio di John McEnroe indugiano sulla scomposizione del gesto di quest’ultimo (il lancio della palla, il punto d’impatto di questa con la racchetta, la velocità del braccio, il movimento delle spalle e dei piedi in avanti), mostrandoci al contempo come la pratica della cristallizzazione dei movimenti sia, essenzialmente, una questione legata alle informazioni che possiamo carpire dalla sfera invisibile (o molto poco visibile) del movimento.
Gil de Kermadec non era interessato alla dinamica del match, cioè al racconto dello scontro competitivo, bensì alla contemplazione di un solo giocatore, alla sfida che egli conduce con se stesso, alla varietà del gioco espressa dal singolo. Utilizzando un frame rate molto elevato, corrispondente a centoventi fotogrammi per secondo, Kermadec assimilava una grande quantità di informazioni sulla performance atletica e restituiva i dettagli invisibili del movimento attraverso il ralenti, ricomponendo così la fluidità e la precisione quasi epica del gesto di McEnroe.
La preparazione stessa delle cineprese a bordo campo, lo studio degli angoli migliori e l’interplay tra gli operatori rendono visibile la perizia con cui il direttore federale conduceva la propria ricerca. Sarà proprio la presenza ingombrante del comparto tecnico, come vedremo, a costituire l’elemento di rottura nel rapporto tra soggetto filmante e oggetto filmato, tra regista e corpo in movimento.

Il Fantasma della Libertà


John McEnroe è un attaccante puro. La sua propensione naturale al gioco di volo gli permetteva di decidere, nel bene e nel male, quando dovevano terminare i giochi. Nel tennis non si da conto alla rovescia, non esiste una durata predeterminata: Serge Daney, a questo proposito, ci ricorda come in questo sport tutto dipenda dalla capacità e dalla bravura dei giocatori di creare e inventare il tempo necessario alla chiusura del punto e, per esteso, della partita (che può essere brevissima, come quella persa 6-0 6-1 da Bernard Tomic per mano di Jarkko Nieminen, o smisuratamente lunga, come quella del 2010 a Wimbledon che ha visto lottare per undici ore e cinquanta minuti John Isner e Nicolas Mahut).
Questa libertà d’invenzione del singolo non trova però come unici (e ovvi) impedimenti le capacità dell’avversario (fisiche, tecniche o mentali che siano): il film di Julien Faraut mostra, infatti, quanto il lavorìo dei rumori fuori scena - prodotti sia dalle Arriflex SR sia dai registratori audio - possa condizionare drasticamente la concentrazione e, di conseguenza, il rendimento dell’atleta sul campo, fornendo allo spettatore una dimostrazione mirabile di come la presenza della macchina da presa non si limiti mai alla mera documentazione di un fatto.
Gil De Kermadc, approssimandosi sempre di più all’oggetto della sua ricerca, non riesce quindi a celare gli elementi di disturbo della tecnica al lavoro, provocando in questo modo la ribellione immediata dell’oggetto stesso che, a sua volta, rivendica la propria libertà di giocatore di tennis e nega, quindi, la propria oggettivazione. Lo scontro tra i due poli non conduce a una sintesi evidente che li ricomprenda, bensì alla definizione di uno spazio sub-dialettico attraversato dal corpo dell’atleta, spalancato verso una dimensione sottile impossibile da misurare. In un passaggio fondamentale, la voice-over di Mathieu Amalric pone l’accento proprio su quanto detto poc’anzi: “Dobbiamo accettare il fatto che la camera possa modificare la realtà, e che l’oggetto del documentario diventi quindi il cambiamento della realtà”.

Il Fantasma della Perfezione

Sarà proprio un rumore a bordo campo a compromettere l’impresa storica di McEnroe durante la finale del Roland Garros del 1984, partita persa contro lo storico rivale (e nemico) Ivan Lendl. Sarà la prima e ultima finale giocata sul Philippe Chatrier dal campione americano; l’unica grande occasione per completare il Grande Slam (il sogno di ogni tennista: la vittoria dei quattro principali tornei in una sola stagione) e concludere un’annata perfetta che avrebbe dato una svolta decisiva alla sua carriera. Un fruscio, un palpito che rompe l’equilibrio mirabile che aveva portato il tennista americano a dominare Lendl nei primi due set e mezzo, cambia drasticamente l’esito dell’incontro: McEnroe è a due punti dal break che avrebbe probabilmente ucciso il match e, clamorosamente, affossa in rete un facilissimo dritto da metà campo. John si avvicina al fonico colpevole di averlo distratto, con sguardo torvo, per scatenare la propria rabbia contro il dispositivo ronzante, e da quel momento il suo livello di concentrazione cala progressivamente. Ivan Lendl inizia a crederci, resta attaccato al punteggio e alla prima occasione strappa il servizio a McEnroe. Il tennista ceco vincerà per sei giochi a quattro il terzo set, e il resto è storia. È l’ultimo punto giocato dall’americano nella partita, quella (per lui) semplice volée di diritto che finisce larga, a stridere con le mostruose statistiche che fotografano la sua incredibile annata: è ancora suo, infatti, il record percentuale di match vinti in una stagione (96,5%).  E dopo aver assistito con ammirazione all’operazione di accumulazione cinematica di dettagli e informazioni sulla dinamica del gesto di John McEnroe, ciò che resta è l’eco delle dichiarazioni di quest’ultimo sul peso di quella sconfitta, sulla cocente delusione, sul rammarico per la grande opportunità sfumata.

Il cinema mente, lo sport no.