Drammatico, Focus

TRIPLE AGENT

Titolo OriginaleTriple Agent
NazioneFrancia, Italia, Grecia, Russia
Anno Produzione2004
Durata115'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Parigi, 1936. Fiodor è una spia. Ma per conto di chi?

RECENSIONI

Chi, che cosa è esattamente Fiodor? Un informatore, secondo l’interessato. Ossia, per uscire dall’eufemismo, una spia, un burattinaio nascosto nell’ombra, un’insignificante pedina le cui mosse possono influenzare i destini mondiali. Almeno, questo è quello che racconta alla moglie Arsinoé, che lo ama teneramente e non si capacita di essere costretta ad apprendere le mosse del marito dalle parole spezzate, casuali e insinuanti, di amici e conoscenti che sembrano capire, vedere meglio di lei (che pure è pittrice, e dovrebbe quindi dominare senza incertezze l’arte della visione) la verità nascosta (o no) dietro le meticolose giustificazioni di Fiodor. Dopo gli illuministici chiaroscuri de La nobildonna e il duca, Rohmer si serve di una vicenda storica dagli sviluppi ingarbugliati e dagli esiti non meno misteriosi (stando al cartello che conclude i titoli di testa) per indagare i labirinti della parola, arma capace di distruggere i destini di un pianeta e il cuore di una donna che ama. Fiodor, generale dell’armata zarista in esilio, e la greca Arsinoé sono costretti a comunicare in francese, lingua cifrata che la donna non controlla pienamente (“eufemismo… capisci questa parola?” “certo, è una parola greca”), e l’uomo non esita a isolare la moglie nel corso delle conversazioni in russo (la scena col cugino, ex principe e ora taxista), naturalmente allo scopo di proteggerla da un’esposizione eccessiva a informazioni riservate (o per vietarle di riferirle, il che è un modo un po’ meno eufemistico d’inquadrare il problema). La parola è per Fiodor il primo strumento del mestiere, l’autentica ragione di vita [emblematica la sequenza in cui (si) esalta (nel)l’esercizio delle proprie funzioni], un padrone crudele capace di spingerlo a riservare alla sposa le briciole del talento (la squallida cartolina/copertura) e a sacrificare alle regole del gioco l’unico tassello trasparente del puzzle infernale in cui si è (per sempre?) trasformata la sua vita. Non diversamente, Triple agent è un rompicapo in cui brandelli documentari (cinegiornali d’epoca) e scene (ri)costruite illuminano la stessa verità, quella di una coppia condannata dalla ritualità degli affari di Stato(/degli Stati), fra tetri (dis)equilibri (anche microscopici: vedi le conversazioni tra Fiodor e Boris nella villa in campagna), minacce furtive (l’”evasione” di Fiodor) e sanzioni insensate che troncano le gambe a chi balbetta la propria innocenza. Sobrio nelle tinte (gli unici colori vivaci sono quelli delle tele di Arsinoé, scene quotidiane in cui i personaggi “reali” trovano pace e – finalmente – attività chiaramente definibili) e rigoroso nella forma (la mancanza pressoché totale di esterni concentra l’attenzione sugli attori, quasi sempre in primo piano all’interno di piani sequenza e inquadrature fisse mai pedanti, inevitabilmente soffocanti, fra stacchi netti e un’iride minacciosa), il film non offre spiegazioni o vie di fuga, proteggendo l’enigma della propria natura (docudrama? spy movie? commedia umana?) e svelando (forse solo per depistarci…) un pensiero metalinguistico: il vero agente segreto è lo spettatore, ombra nelle ombre, detective davanti a indizi inconciliabili, (dis)illuso analista di un segreto indecifrabile. O il regista, manovratore invisibile, abile simulatore (i dialoghi didascalici ed evasivi) e sagace sabotatore delle inchieste altrui (l’epilogo nel camerino/sala di montaggio di Fiodor). Ancora una volta, Rohmer si (di)mostra ellittico, ingannevolmente placido e magnificamente imprendibile. Missione compiuta.

Così recitava la brutta canzone, resa celebre a opera di cantanti variamente dotate ma tutto sommato interpreti mediocri, seppure fanaticamente adorate da un pubblico di intrattabili devoti. Secondo Hitchcock il sonoro non avrebbe mai dovuto essere introdotto nel cinema, arte eminentemente visiva. Ma è pur vero che la voracità del mezzo non avrebbe potuto, dopo la diffusione della radio, rinunciare ad assorbire quell’innovazione tecnologica, come più tardi sarebbe accaduto col colore, e come sta avvenendo in questi anni col digitale. In ogni caso, oggi siamo talmente assuefatti alla barbarie delle parole che non riusciremmo probabilmente a sopravvivere se il cinema d’improvviso le ripudiasse; ma chissà, dopotutto il buon successo della riedizione di Aurora potrebbe invogliare qualche coraggioso. Anzi, il coraggioso c’è già; è uno dei maggiori registi odierni anche se nessuno lo chiama maestro, vive negli States (a Portland), e nei suoi ultimi film – Sokurov e Tarr gli aurei modelli – ha quasi azzerato la presenza della parola. Ma Rohmer, che naturalmente è uno dei grandi autori del cinema, si fida delle parole. E la maledizione delle parole si è abbattuta senza pietà su questo film, totalmente privo di una qualità forse poco intelligente e cólta, ma così importante al cinema: una scelta estetica, rispetto al proprio oggetto, che non si riduca alla compostezza formale, qui di una rigidità irritante nella propria supponenza. Sembra infatti che la materia del film fosse, nientemeno, il subdolo e avvolgente potere seduttivo della parola; tuttavia, decidere di illustrarlo esibendo per due ore le incontinenze verbali dei protagonisti sarà pure una geniale provocazione, ma non diremmo che riveli un approccio intellettuale al tema affrontato, qualità di cui sempre e comunque si fa credito al regista francese.
Non c’è costruzione visiva, in Triple agent: la messinscena è di una monotonia esasperante. Davvero non riconosciamo il Rohmer dei giorni migliori (ahi, quanto lontani), ossia quello di La marchesa Von… e di Perceval le Gallois, che dava vita a un intero mondo a partire dal particolare di un arazzo. Ma non c’è neppure progressione drammatica; i coniugi protagonisti sono sempre lì, per lo più in pose leziose o inamidate, a sommergerci con le loro allocuzioni interminabili, piene di allusioni a fatti o personaggi sconosciuti a chiunque non sia un valente studioso delle guerre spionistiche degli anni ‘30; in compenso, la donna qualche volta piagnucola, sentendosi trascurata dal marito, ma si rasserena quando lui protettivo l’accarezza e le fa intravedere una notte dedicata all’adempimento dei doveri coniugali. Bonsoir finesse. Potreste allora immaginare che la perizia dell’artista si sia rivolta alla costruzione di una qualunque evoluzione dei personaggi, per improbabile che sia. Ma no, la suspense emotiva è cosa troppo vile, mentre il nobile si interessa solo alla bellezza dell’arte, disdegnando come la peste gli psicologismi plebei che pure gli avevano portato fortuna in un lungo e onorevole passato. Qui, di arte ce n’è pochina; lezioni di storia dell’arte, questo sì: tardoimpressionisti sentimentali contro cubisti iperpoliticizatti, stalinisti reazionari nel condannare – come Hitler – l’arte “degenerata” contro sinistrorsi di Francia tutti filosofia e modernismo, in una schematizzazione sulla quale lasciamo volentieri ogni giudizio allo spettatore ben disposto. Infine, una grande scoperta storica che Rohmer ci offre come il più prelibato dei dessert: la turpe e sciagurata alleanza fra Hitler e Stalin (patto Molotov-Von Ribbentrop, 23 agosto 1939) diede al Führer maggiore sicurezza per poter attaccare l’Europa occidentale e mettere in ginocchio in pochi mesi la Francia. Per un regista che, prima del largamente sopravvalutato La nobildonna e il duca, si era sempre sovranamente disinteressato di letture o riletture storiche e politiche, bisogna ammettere che è una bella novità. Per parte nostra, il sopore che ci aveva colpito e al quale non cedevamo per puro dovere d’ufficio non ha conosciuto pause. Eppure, sciocchi come siamo, non avevamo compreso che Rohmer non è minimamente interessato a tener sveglio lo spettatore, ma solo a frustrarlo e spossarlo con protervia d’auteur. Ebbene, speriamo di non peccare d’irriverenza se invitiamo il maestro a tornare alle cliniche e minime vicende curiose dell’umano, impreziosite da un penetrante soggettivismo esso sì provocatorio e benvenuto, che per decenni ci ha elargito in modo egregio; il tentativo di emulare De Oliveira – immergere figure potenti o ininfluenti nel tritacarne della Storia per osservarle da eccentrica prospettiva – gli è riuscito qui ancor meno che nel film precedente. Oppure, in alternativa, ad andare a lezione di cinema (quasi) muto da Gus Van Sant.