Drammatico, Sala

TORNERANNO I PRATI

TRAMA

Siamo sul fronte Nord-Est, dopo gli ultimi sanguinosi scontri del 1917 sugli Altipiani. Nel film il racconto si svolge nel tempo di una sola nottata. Gli accadimenti si susseguono sempre imprevedibili: a volte sono lunghe attese dove la paura ti fa contare, attimo dopo attimo, fino al momento che toccherà anche a te. Tanto che la pace della montagna diventa un luogo dove si muore. Tutto ciò che si narra in questo film è realmente accaduto. E poiché il passato appartiene alla memoria, ciascuno lo può evocare secondo il proprio sentimento.

RECENSIONI

80 minuti esemplari trascorsi al gelo di una singola notte, illuminata da un chiaro di luna assassino, persi su un altopiano innevato, al fronte. Un gruppo di soldati anonimi, spaventati, infreddoliti, ammalati, anti-eroici. Un’immersione totale nell’incubo della trincea per una rappresentazione ancorata saldamente al realismo dei dettagli eppure significativamente aperta, per scrittura e messa in scena, verso prospettive quasi metafisiche. Lo sguardo etico di Ermanno Olmi si concretizza in un film di potenza espressiva inaspettata: teso, commovente e spaventoso, torneranno i prati in egual misura provoca la mente e turba gli animi. Il film parte seguendo una sottile traccia narrativa: il tentativo di raggiungimento di un avamposto strategico situato a pochi metri dalla trincea, ma fatalmente esposto al fuoco dei cecchini austriaci in agguato. Fuori: le nere sagome dei monti, la neve immobile, un larice dorato, una volpe curiosa. Dentro: una trincea sotterranea resa in immagini desaturate: cuccette composte da assi di legno, la distribuzione del rancio, l’arrivo della posta, piccoli soldati impauriti e febbricitanti rinchiusi in gabbia. Poi quando i nemici invisibili attaccano e le bombe si abbattono sulla trincea, anche il pretesto narrativo del film esplode in frammenti di orrore: rimangono solo la desolazione fredda dell’altopiano, gli occhi muti e terrorizzati dei soldati, i loro monologhi rivolti allo spettatore con lo sguardo dritto in camera.

Girato su commissione nell'ambito delle celebrazioni per il centenario dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, torneranno i prati brilla di una sua purezza etica di fondo, che lo tiene a debita distanza da ogni cliché storico e di genere. Olmi dichiara di aver realizzato il film per chiedere perdono a tutti coloro che furono mandati a combattere al fronte in virtù di un enorme malinteso, o di un falso ideale, che sconvolse un'intera epoca: il vanaglorioso patriottismo. Non c'è traccia nel film di celebrazione nazionalistica, di abnegazione ai doveri più alti della patria da parte dei personaggi e non vi è neppure un ripiegamento semplicistico sulla morale facile, troppo facile, del "guardate ciò che è stato affinché non avvenga più". Al contrario, torneranno i prati non si accontenta di mezze soluzioni nella rappresentazione storica e, anzi, si ripropone di far vivere allo spettatore il trauma stesso della trincea, come esperienza storica ancora viva, presente e pertanto pericolosa: sussultiamo ad ogni sparo in lontananza, ci inquietiamo alla vista delle distese di neve immobili, abbiamo paura quando le bombe cadono sulla trincea - ci cadono addosso -. Inoltre il film è criticamente marchiato da un senso di rassegnata disperazione nei confronti di un processo di oblio storico che pare inarrestabile. Come testimonia il monologo finale del soldato, sguardo in camera, di certo un giorno la guerra sarà finita e pace sarà fatta: la neve si scioglierà, la montagna tornerà verde: la gente dimenticherà e il dolore di chi ha vissuto ed è morto in trincea sarà reso vano. A voler essere precisi qualche difetto all'opera glielo si può riconoscere (alcune pecche di recitazione, utilizzo di immagini d'epoca e cartelli con citazioni nel finale forse non veramente necessari), ma raramente nel cinema italiano di questi anni ci si è imbattuti in un opera, e in particolare una che mira all'indagine storica, che provoca così tanto turbamento. All'età di 83 anni, Ermanno Olmi ci regala un film a suo modo indimenticabile.

Ermanno Olmi dedica l’opera al padre che gli raccontava della Grande Guerra in cui partecipò, una memoria già ripercorsa ne I Recuperanti (stessa location, l’altopiano di Asiago) e in Il Tempo si è Fermato, il suo esordio parimenti occluso dalla neve: la filmografia dell’autore, allora, pare chiudere un cerchio, dato che torna anche a collaborare con la Edison. Un piccolo film antimilitarista che, scritto ispirandosi a diari e lettere dei soldati protagonisti e al racconto di Federico de Robertis (1921), è uscito approfittando del centenario dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale, curando nei minimi dettagli la ricostruzione storica. Si rinchiude in una postazione militare di montagna per osservare il male di vivere dei suoi occupanti, sposando un lirismo che nega di continuo l’orrore della guerra, cogliendo gli interpreti con lo sguardo malinconico ed abbassato (quando non parlano direttamente alla macchina da presa), con i colori desaturati della fotografia di Fabio Olmi che rasentano il bianco e nero. Grande pathos, grandi immagini pittoriche, grande atto poetico. Peccato che il lirismo non sia retaggio del solo sguardo registico (per altro affidato a Maurizio Zaccaro: l’anziano Olmi non era in grado di dirigere a 1800 metri di quota in Val Formica e a 1100 metri a Valgiardini) ma ammanti tutti i personaggi, trasformati in inverosimili poeti intimisti, contraddicendo le stesse parole del regista che, avendo letto le loro testimonianze, ha affermato che non si facevano domande, perché facenti parte di una generazione che “obbediva”.