TRAMA
In giro per le strade d’Europa, Branko è diventato un camionista sempre più lontano da tutto e da tutti, e vive isolato nella cabina del suo TIR per dare un presente migliore alla sua famiglia (dal pressbook).
RECENSIONI
Simulando un documentario. Alberto Fasulo con Tir fa quello che Gianfranco Rosi provò a fare con Sacro Gra, senza nascondersi dietro all’alibi dell’ispirazione ed esecuzione casuale: finge di documentare la realtà, o ancora meglio usa tracce esteriori del reale (luoghi e pratiche del lavoro da camionista), li rimescola con i caratteri e le stigmate drammaturgiche dell’artificio e della fabula, poi cerca in modo volutamente esibito un risultato il più epidermicamente realistico. Il punto però, è che per seguire la sperimentazione di modelli di messa in scena, di immersione graduale nel senso della finzione, dobbiamo fin da subito escludere che Branko Zavrsan sia un attore professionista. Di fronte allo spettatore c’è il camionista Branko Zavrsan (forse?) alle prese con pregi (si guadagna quattro volte lo stipendio da insegnante quale lui è) e difetti (ti spacchi la schiena, ti mangi e ti lavi sul marciapiede come nel medioevo) del suo mestiere di guidatore di tir. Accettato il patto di una documentazione evenemenziale rigorosa del protagonista ecco che la macchina da presa si fissa dentro l’abitacolo del camion, riprende senza spostamenti di sorta i microgesti delle ore passate al volante da Branko, stringe sull’uomo prossimo al sonno mentre è al telefono con la moglie per il resoconto della giornata. Poi ecco una piccola increspatura tra tegamini all’addiaccio e lavaggio di piatti alla zingara: Branko s’ingelosisce appena la moglie accenna ad una serata tra amiche finita con un passaggio a casa da parte di un amico. Fasulo ci concede la prima spia rossa che si accende ad intermittenza e con un colore tenue, poi lentamente sempre più forte e fissa. Branko esce dalla stasi dell’attesa del carico e inizia a riempire il camion di casse di mele. L’azione, la mobilità, il percorrere del tragitto di ritorno è sia un capitolo nuovo della narrazione, sia la conferma che la crisalide della realtà si sta trasformando nella farfalla della finzione.
Le variabili del racconto cominciano ad intrecciarsi, le persone del quadro di una quotidianità che per venti/trenta minuti sembrano palpitare naturalmente in una dimensione atemporale, fatta di isolamento fisico e mentale, mutano in personaggi. Ecco l'offerta della scuola di tre mesi di supplenza per sostituire il mestiere lontano da casa del camionista, la telefonata del figlio che esige quattrini per la casa a prezzo stracciato, le parole del collega (quello sì un vero camionista) che non ne può più di lavorare sui camion. La macchina da presa reagisce allo stimolo teorico della messa in scena e comincia a muoversi, a ruotare, quasi a carrellare tra depositi, parcheggi e uffici. Il terzo movimento, infine, Fasulo lo offre nella contemplazione del lavoro tutto fittizio dell'invenzione cinematografica meliesiana: Tir sfiora la poesia de Il Toro di Carlo Mazzacurati, Branko Zavrsan si misura con l'understatement di Diego Abatantuono/Franco e Roberto Citran/Loris (la sequenza della discesa dei maiali dal carro è contenuta in almeno due-tre sequenze del film del compianto regista padovano). Il camaleontico Tir si trasforma in almeno tre piani espressivi differenti senza immolare l'intero significato dell'operazione nello svacco di una inattesa spettacolarità. Con il 'the end' che giunge nuovamente dentro all'abitacolo, senza radio e telefoni in funzione, macchina da presa fissa, gestione totalizzante e finemente calibrata del mezzo cinematografico.
