
TRAMA
Cheyenne, rockstar cinquantenne ritiratasi prematuramente dalle scene in seguito al suicidio di due fan, parte dalla sua villa di Dublino per l’America per incontrare il padre morente col quale ha rotto tutti i rapporti da anni. Arrivato negli USA troppo tardi decide di dare la caccia all’aguzzino nazista che umiliò il genitore.
RECENSIONI
Road movie, percorso di formazione, esplorazione di luoghi iconografici, il film di Sorrentino si muove in molte direzioni continuando, il suo autore, a farsi forte di un’estetica cinematografica oramai riconoscibile: ogni singola scena del film è frutto di un lavoro in cui nulla viene lasciato al caso, di sapiente costruzione dell’immagine e di composizione dell’inquadratura che è e rimane obiettivo primario e dell’autore - i bei campi lunghi, i dolly geometrici, le visioni stilizzate dei contesti urbani (luoghi e non luoghi) degli ambienti naturali e dei complessi architettonici - rimanendo sullo sfondo la trama, i personaggi emergendo attraverso tracce minime, disegnate su una fragile drammaturgia. Nulla di male: che a Sorrentino importi poco di narrare è un fatto assodato, e non da oggi; gli è che purtroppo i suoi film pretendono ancora di farlo, chiamando in causa tematiche importanti e non mimetizzabili, un paradosso che questa pellicola, in particolare, cercando di eludere le logiche dell’intreccio attraverso una laconicità che suona più furba che naturale e una scarna dialogistica, aforistica e sentenziosa, palesa con un certo impaccio.
Nella prima parte, quella irlandese, il ritratto nel suo milieu della rockstar Cheyenne (Robert Smith dei Cure incrocia Boy George), ennesima caricatura-freak della filmografia del regista, risulta felicemente gestito nel quadro di una commedia depressiva tanto futile quanto divertita, quadro bruscamente contraddetto dal traumatico cambio di tonalità segnato dall’arrivo del protagonista in America. Difficile conciliare quell’incipit con il frettoloso evolversi della faccenda, il mancato confronto con il padre, l’arrivo tardivo al capezzale che impedisce il mitigarsi del senso di colpa, la decisione di Cheyenne di scovare l’aguzzino nazista. Il film passa con disinvoltura risibile dal disincantato ritratto della figura monstre alla Tragedia per antonomasia, la Shoah. Sul piatto Nazismo e Olocausto, dunque, temi non da poco che pure degradano ex abrupto a mero pretesto: appena il film cerca di dare sostanza al tormento di Cheyenne, al suo rapporto contrastato col padre, non appena cerca di giustificare questo girovagare della rockstar nel paesaggio americano - che si cattura nella sua splendida orizzontalità bicolore, magari macchiata da nuvole lattee, ché questo è il vero obiettivo del road trip rappresentato - si palesa con grave imbarazzo la sua insincerità e inconsistenza.
Ma non è solo questione di scrittura. Sorrentino creando atmosfere, delimitando ambienti e luoghi, dipingendo un paesaggio, con figure che quasi casualmente narrano la loro storia allo spettatore, si muove come un novello Wenders; ma se il tedesco, anche nei suoi esiti meno felici, rimasticava con voracità tutta europea un immaginario, Sorrentino si limita a rimasticare quella rimasticatura. Sullo stesso (secondo) piano si pone quell’indulgere all’iperreale, allo spaccato di un’America di verosimile, lynchiana assurdità che si traduce in una banale e replicativa sequenza di personaggi-meteora (e l’apparizione di Harry Dean Stanton non è casuale, sintetizzando Paris, Texas e Una storia vera e prendendo due piccioni referenziali con una fava). E peccato pure che Sorrentino di questi riferimenti (ai quali aggiungerei certi glaciali paradossi, quadri in forma di fiaba moderna e tenere bizzarrie propri di molto cinema nordico contemporaneo, Hamer in testa) conservi solo la buccia, buttandone a mare la polpa – filosofica e motivazionale –, procedendo alla loro banalizzazione nel placido secondo grado dove pacifico alberga, alla loro volgarizzazione bassamente divulgativa, figlia di un approccio midcult, imbevuta di un poeticismo tanto facile quanto fasullo. E anche quando osa - e This must be the place, glielo si riconosce, ha momenti di rara, discutibile impudicizia - è un film che inciampa e cade (il finale con il monologo dell’aguzzino e la sua successiva umiliazione – previa istantanea con la macchina fotografica che sostituisce la rivoltella, ché sempre di shooting si tratta – è, detta senza giri di parole, una brutta cosa).
La scena del concerto di David Byrne è forse l’emblema del cinema di Sorrentino: un piano sequenza che si sviluppa con costante sorpresa e ribaltamento di prospettiva ma che rimane lì, frammento prezioso accostato ad altri, la cui funzione (quella di giustificare il titolo e di appagare l’entusiasmo di avere l’idolo musicale della giovinezza al proprio fianco) è estranea alla sostanza di un film che su questa logica del frammento si edifica, lasciando a una trasandata vaghezza il quadro d’insieme. Sì, perché This must be the place è un film arty e fighetto, composto di tanti moduli distinti, senza scene di raccordo, sequenze-icone vendibili separatamente, già pronte per il caricamento su You Tube, e che magari, scorporate dal contesto, possono dare un’impressione di finitezza molto più forte di quando le si vede infilate una dopo l’altra. Pallida eco visiva di cose già viste. Bella forma e basta.

In difesa di Sorrentino
“Questo è il posto, il set giusto” deve essersi detto Sean Penn folgorato dal talento di Sorrentino, che gli ha cucito addosso un altro cantante alienato, Uomo in Più in trasferta americana on-the-road, genere ideale per il suo cinema ibrido, arlecchinesco e bizzarro. La prima parte ha il passo stralunato e assonnato del suo protagonista fuori dal mondo, maschera dark alla Robert Smith che sopravvive a se stessa come un fantasma, sorretta nella sua infantile androginia da una moglie mascolina che decreta la sua noia (non è depressione): il peggior modo di morire è restare vivi. La seconda parte arreca una meta, un percorso di formazione per il bambino cresciuto all’ombra di un padre sconfessato: il tema dell’Olocausto è solo contingente, l’aforisma guida è “Avere paura nella Vita ti salva, ma almeno una volta non bisogna averla”. I divertenti paradossi generati dal contatto fra l’extraterrestre e la realtà circostante trasformano la figurina in un cuore pulsante che, nella sua inabilità all’adattamento, evoca tenerezza mentre sorprende per generosità e sensibilità, con una fragilità contraddetta dalla saldezza delle massime di vita. I dialoghi di Sorrentino sono, come sempre, liricamente grotteschi e lucidamente sarcastici, inseguono l’astrattezza per restituire (anche) il principio motore e si specchiano in una messinscena non visionaria che crede nelle anomalie della sopra-realtà, la stessa che risuona nelle note musicali estrose che si identificano con il “vero artista” David Byrne. Cheyenne è il cinema di Sorrentino: da un lato c’è la maschera, ipnotica, fondata sulla suggestione e l’atto apparentemente gratuito, dall’altro, sotto e sopra la crosta, c’è la profonda umanità, quella che, anche con umiltà, dichiara apertamente il fine del percorso allegorico per non perdere l’empatia con il personaggio e la potenza delle apparizioni. Film wes andersoniano più che wendersiano, anche perché “Il dolore non è la destinazione finale” e la caccia all’uomo si risolve in paradosso che svela la bellezza dell’ossessione in sé.
