Drammatico, Horror, MUBI, Recensione, Thriller

THIRST

Titolo OriginaleBakjwi
NazioneCorea del Sud
Anno Produzione2009
Durata133'
Liberamente ispiratoa Thérèse Raquin di Emile Zola
Scenografia

TRAMA

Prete in crisi di vocazione, Sang-hyun decide di offrirsi volontario per sperimentare un vaccino che possa debellare il terribile e misterioso virus Emmanuel. Le cose non vanno come sperato e il sacerdote muore. Per risorgere però subito dopo, grazie a una trasfusione di sangue di provenienza ignota. Effetto collaterale: adesso è un vampiro.

RECENSIONI

L'impero dei sensi secondo Park Chan-wook: mutuo vampirismo, dissanguamento reciproco, corpi come vasi comunicanti. Un groviglio di epidermidi e di linfe vitali succhiate avidamente fino allo stordimento, una resurrezione in loop, faticosa, madida di sangue e sudore, disperatamente carnale.
Tra la "trilogia della vendetta" e la recente trasferta hollywoodiana di Stoker la filmografia del regista sudcoreano annovera due titoli bellamente ignorati dalla distribuzione italiana, il sottostimato romance psichiatrico I'm a Cyborg, But That's Ok e il film in questione, vincitore anche di un Premio della Giuria al Festival di Cannes 2009. Due opere di diversa temperatura emotiva ma accomunate dalla preminenza del tema sentimentale approcciato in modo decisamente anticonvenzionale, film quasi "intimi", virgolette d'obbligo data l'esuberanza linguistica del nostro.

Progetto accarezzato da oltre dieci anni, Thirst vede finalmente la luce quando Park s'imbatte per caso nel romanzo "Thérèse Raquin" che gli fornisce l'ossatura narrativa adatta ad accogliere e coagulare le sue idee. Il naturalismo zoliano si allucina in un grand guignol sonnambolico e ghignante, ogni ipotesi determinista si carbonizza nella pira dell'amour fou. Il protagonista Sang-hyun è l'ennesima creatura parkiana intrappolata nella duplice prigione dell'istinto e della morale. Il suo status di prete cattolico in crisi di coscienza, per di più in beffardo odor di santità a causa di presunti miracoli da lui compiuti, ne acuisce tormenti e sensi di colpa: l'ambivalenza dell'atto caritatevole, il martirio che sconfina in fantasie suicide, la fede che vacilla di fronte alla scienza. Improvvisamente da somministratore dell'estrema unzione ai malati terminali si ritrova dall'altro lato della barricata, risvegliato nella morte a nuova vita, assetato di sensazioni sconosciute, sul crinale instabile tra umano e disumano. Il virus inarrestabile dell'eros scompagina ogni mappatura etica: l'ormai ex sacerdote muta quasi cronenberghianamente in blasfema eucarestia vivente, la sua donna risarcisce la propria sacrificata e remissiva esistenza abbandonandosi a una ferinità oltraggiosa.

Opera proteiforme e spigolosa, ridondante, claudicante sul piano del ritmo, con più di un'ombra di artificiosità nella costruzione narrativa, paga il pegno della sua libertà non mettendo tutto a fuoco, irrisolta principalmente nella modulazione del registro grottesco. Park al solito spiazza le attese, assoggetta totalmente alla propria poetica l'iconografia vampiresca, lavora con la nota perizia sulla pienezza del quadro e sul sonoro come elemento perturbante, usa il feticismo come punteggiatura narrativa, costruisce la tensione anche sullo scarto luministico (il neon accecante del prefinale). Horror, noir, commedia nera (le stoccate alla mostruosità "incestuosa" della famiglia medio-borghese) vengono fusi al calor bianco dell'unica temperatura che interessi veramente al regista, quella del mélo.

Il (bel) finale si colora del romanticismo estremo e delirante di un'alba tragica, dei bagliori di un olocausto che si consuma davanti a un impietoso e inflessibile sguardo accusatore. A far da suggello, come era già accaduto nell'epilogo di Lady Vendetta, una struggente gag da comica finale. Alla luce del sole lo scandalo dell'amour-passion divampa e s'incenerisce. La notte e l'inferno sono per gli amanti.