TRAMA
Il piccolo John, solo e senza amici, esprime un desiderio per Natale: che il suo orsacchiotto di peluche possa diventare vivo ed essere il suo migliore amico per tutta la vita. Il desiderio è esaudito e Ted l’orsacchiotto diventa una celebrità nazionale. Oggi, a 35 anni, John è un perditempo che non riesce ad arrivare in orario al lavoro e passa tutto il suo tempo libero con Ted, fumando bong e guardando la tv. La sua ragazza, Lori, è però stufa di aspettare che John diventi un adulto e gli dà un ultimatum: o lei o l’orsetto.
RECENSIONI
The Seth MacFarlane Show
Seth MacFarlane è il più pagato autore televisivo di sempre. A soli 23 anni ha creato I Griffin (Family Guy in originale), una delle serie animate di maggior successo degli ultimi vent'anni e, insieme ai Simpson (di cui è enormemente debitrice) e a South Park, il miglior esempio di cartoon brutto, sporco e cattivo che ha colonizzato la televisione recente. Sulla sua più nota creatura (a cui si è poi aggiunto lo spin-off The Cleveland Show e la serie American Dad), MacFarlane ha continuato a esercitare in questi anni un controllo pressoché totale, mantenendo non soltanto il ruolo di produttore esecutivo, consulente creativo e capo degli sceneggiatori, ma anche quello di attore che dà la voce ai tre protagonisti maschili (Peter Griffin, l'obeso capofamiglia, il figlio Chris e il cane parlante Brian) e a diversi altri personaggi secondari. La serie, dopo un ottimo avvio, una cancellazione anticipata e una rinascita dovuta al grande successo delle vendite in DVD (fu tra le prime serie TV a sfruttare in modo metodico l'home video) ha proiettato MacFarlane nell'olimpo degli autori tv, portandolo a firmare un contratto con la Fox che ha superato, secondo la stampa di settore, il record registrato fino ad allora da J.J. Abrams.
Forte di tanta celebrità, MacFarlane ha deciso di esorbitare dal suo orticello: ha inciso un disco in cui fa il crooner alla maniera del Rat Pack (Music is better than words, che ha addirittura ottenuto un paio di nomination ai Grammy), condurrà la prossima edizione degli Oscar e ha avuto un budget di oltre 50 milioni di dollari per dirigere il suo primo lungometraggio, Ted (che ha già incassato quasi mezzo miliardo di dollari, nonostante in patria abbia ricevuto la classificazione R - vietato ai minori di 17 anni non accompagnati - un notevolissimo handicap commerciale negli Stati Uniti).
Il peculiare contesto di Ted, dunque, non è soltanto quello produttivo (una major che prova a esportare sul grande schermo il successo di un cartoon - MacFarlane sceneggia assieme a due altre firme abituali di Family Guy) ma anche quello, per così dire, autoriale. Ted, infatti, è il tentativo (abbastanza ben riuscito) di trasporre in un lungometraggio con attori in carne e ossa (quasi tutti, almeno) alcuni temi, le ossessioni, l'umorismo e l'approccio esistenziale della più famosa creazione di MacFarlane, assicurando a MacFarlane lo stesso controllo creativo che ha avuto sinora sulla serie a cartoni. Il nostro, infatti, non è soltanto regista della pellicola, ma anche produttore, soggettista, co-sceneggiatore e voce del protagonista orsacchiotto (nonché, a voler esser pignoli, doppio umano dell'orsetto durante le riprese, per consentire la digitalizzazione dei movimenti del corpo tramite il motion capture).
Dai lamantini alla struttura standard
Sulla carta, il problema principale del progetto sembrava non tanto il salto dal cartoon alla live action quanto la difficoltà di conciliare il dadaismo sincopato e destrutturato di un tipico episodio dei Griffin con le esigenze imprescindibili di un lungometraggio da un’ora e tre quarti che potesse ripagare l’investimento. Il tratto più caratteristico della serie di MacFarlane è infatti il suo surreale andamento disconnesso, fatto di spezzettamenti, inserti e deviazioni più o meno casuali, del tutto incuranti di qualsiasi forma di coerenza o di sviluppo narrativo lineare. Un episodio dei Griffin è, grossomodo, un puzzle di gag demenziali che gemmano intorno a un esilissimo plot centrale. Quando South Park ne fece una parodia (in una bellissima doppia puntata centrata intorno al tema, recentemente tornato di urgente attualità, della libertà d’espressione), immaginò che la storia di un episodio dei Griffin fosse creata da un branco di lamantini che sceglievano a caso delle palle con dentro un’idea. A differenza dei Simpson (che resta l’insuperato modello sia per MacFarlane sia per gli epigoni meno talentuosi), i Griffin radicalizzano l’aspetto demenziale, dissacrano qualsiasi concetto di intreccio e investono tutto sull’irriverenza, sul turpiloquio e sulla sfida aperta ai più vari tabù contemporanei (battute su ebrei, omosessuali e disabili, sfrontatezza sessuale, feroci parodie a sfondo religioso e una profusione di umorismo scatologico e dintorni). Questi due aspetti (quello formale e quello sostanziale) hanno costituito la maggiore novità della serie e anche il suo maggiore limite. La comicità di MacFarlane sembra spesso incapace di sviluppare un’idea che abbia un respiro più ampio di un paio di minuti (per quanto si tratti di minuti divertenti e spassosi e spesso intelligenti) e si direbbe quasi terrorizzata dalla possibilità di prendere sul serio – anche solo superficialmente o momentaneamente – qualsiasi cosa di qualsiasi tipo, anche la propria stessa scrittura, i propri personaggi, la propria struttura narrativa.
Il problema posto dall’applicazione di questa intrinseca volatilità di scrittura a un copione hollywoodiano è risolto da MacFarlane in un modo abbastanza solido ma allo stesso tempo poco interessante: innestando l’idea centrale (e sostanzialmente unica) del film (un orsacchiotto parlante, volgare e scorrettissimo, nella vita di un trentacinquenne) su uno scheletro di cliché (la buddy comedy, la romantic comedy e la commedia avventurosa da ragazzini) e riempiendo tutti i buchi con riferimenti alla cultura cinematografica pop: da Flash Gordon a Aliens, da Superman Returns ai film della scuderia di Judd Apatow, da Jack e Jill con Adam Sandler – che Ted guarda assieme a un gruppetto di prostitute – alla parodia della parodia della Febbre del sabato sera fatta, in modo quasi identico, nell’Aereo più pazzo del mondo.
Giudicare Ted
Il collage tiene meglio di quanto era ragionevole immaginarsi, anche se alcuni tasselli traballano (e tutto il subplot action / avventuroso, con tanto di inseguimento in macchina e resa dei conti allo stadio, suona eccessivamente posticcio). In questo modo, il balbettio dada dei Griffin è ricomposto secondo uno schema standard: il fidanzato che non vuole crescere e passa troppo tempo col suo migliore amico a strafarsi di canne e b-movies, la bella fidanzata che perde la pazienza, la crisi e la riconciliazione. L’idea comica è caruccia, non c’è dubbio, e riesce a mantenere la sua forza per l’intero film. Ci sono alcuni momenti spassosi e degli inevitabili rimandi (più o meno sottili) ai Griffin (il lungo combattimento tra Mark Whalberg e l’orsetto ne è l’esempio più riuscito); ci sono anche tante buone battute e in generale la maggior parte delle cose messe in bocca a Ted riesce molto esilarante (soprattutto proprio perché sono dette da un orsacchiotto cinico che eccede nel turpiloquio).
Il primo problema, però, è che tutto si regge sulla trovata dell’orsetto e il resto è la solita, trita, banale commedia demenziale americana. Ted ostenta una scienza enciclopedica del cinema di genere e i suoi due protagonisti mostrano una profondissima consapevolezza pop (il momento più alto – questo è uno spoiler – è quando l’orsacchiotto, agonizzante e tranciato in due, si paragona all’androide di Aliens: un vero e proprio cortocircuito tra vita, immaginario pop e possibilità della rappresentazione in un mondo in cui la vita è interamente filtrata dall’immaginario pop). MacFarlane tuttavia non opera con la stessa consapevolezza su quegli stessi schemi (il buddy movie, la rom com, il topos tritissimo dell’inseguimento allo stadio, eccetera, eccetera) che sfrutta pigramente per dare una struttura al suo film. Anzi, quegli schemi sono trattati con cura e rispetto, come un autore di genere alle prime armi farebbe con un manualetto su come strutturare un film di successo. Lo iato tra l’aria saccente di chi ha visto tutti i film e la convenzionalità dello script costringe a ridimensionare subito la tentazione critica di fare di Ted (che è un’opera programmatica alquanto trasparente, con delle precise premesse, un preciso target e una forte continuità con un discorso produttivo più ampio) ciò che non è (vale a dire l’opera artistica o teorica di un genio). Inoltre, anche all’interno delle convenzioni e degli schemi usati, il film di MacFarlane mostra delle debolezze: su tutte, l’eccessiva subalternità dei personaggi e del loro (scarso) sviluppo (soprattutto quello interpretato da Mila Kunis, attrice sprecata ancora una volta) alla trovata dell’orsacchiotto.
Il secondo problema, diciamoci la verità, è che Seth MacFarlane ha un po’ stufato e con lui ha stufato l’idea di una comicità che nasconde dietro una sedicente anarchia libertaria un’aggressività a volte inquietante e dietro il gusto citazionista l’assenza di idee diverse dal continuo rimacinamento di un immaginario pop-trash ormai putrefatto e senza senso. Ai più frettolosi potrà sembrare un’osservazione moralistica, ma questi difetti, già presenti nei Griffin soprattutto nelle ultime stagioni, si percepiscono meno nettamente su un divano che in una sala stracolma di quindicenni (in Italia è vietato ai minori di 14, non di 17). Per loro i referenti primari del gioco (l’ortodossia ideologica progressista, la political correctness e gli originali prodotti pop degli anni ’80 e ’90) sono idee vaghe o addirittura inesistenti: di conseguenza, la risata smette di poggiare sulla meta-capriola pop e si nutre solo dell’immediatezza superficiale della situazione in sé: il ragazzino ebreo pestato, la sbruffoneria machista, i due amichetti che si strafanno di cocaina assieme all’attore che impersonava Flash Gordon nell’omonimo (s)cult del 1980. Viene il dubbio, quindi, che il senso ultimo dell’iper-scorrettezza sia veramente quello: ridere dell’ebreo pestato e delle puzzette e mascherare la faccenda con un posticcio discorso critico su stereotipi e tabù.
Così come per John Bennett è giunto il tempo di diventare adulto, per la trasgressione comica, in tv e fuori, una volta esaurito il giro completo dell’autoreferenzialità pop, è forse tempo di tornare a poggiare i piedi su basi più solide1.
L’idea è simpatica e folle, per quanto scopiazzi quella del serial televisivo australiano Wilfred: l’Harvey di James Stewart prende vita in un’anomalia da Mr. Beaver, in forma di decerebrato amico di infanzia, peter pan dedito alle droghe, sessualmente spregiudicato e scurrile compagno di immaturità. All’esordio al cinema dell’autore delle provocatorie serie tv animate I Griffin e American Dad (da cui eredita la maniacalità delle citazioni), però, manca il coraggio di uscire dai binari della commedia edificante made in U.S.A.: ed è paradossale, visto il tipo di protagonista (che lui stesso doppia e “muove” col motion capture) e la demenzialità monty pythoniana cui dà vita con Mark Wahlberg. D’altro canto, a Hollywood va di moda questo sottogenere, creato dai fratelli Farrelly, in cui è lecito scoreggiare, mimare un pompino, convivere con la fantasia e adorare all’inverosimile Flash Gordon (bel colpo aver scritturato Sam J. Jones che, al contempo, ridicolizza e mitizza il suo personaggio), per poi far rientrare tutto nei ranghi dell’imprescindibile modus vivendi borghese, con il suo corredo di valori risaputi. Anche il lieto fine, dove la moralista si arrende al ménage a trois, anziché approfittare dell’evento per una riflessione ludica sulla flessibilità dei modelli tradizionali, preferisce il compromesso che non solleva riflessioni. Il pupazzo di pezza, se sostituito dalla canonica figura dell’amico sfigato-immaturo dell’adolescenza che frena l’uscita dalla caverna (uno degli ultimi esempi lo si vede in L’Alba dei Morti Dementi), non avrebbe modificato trama e modi del film, e questo la dice lunga su di una favola con voce narrante di Patrick Stewart e musiche che paiono uscire da una commedia familiare anni sessanta. Peccato.