
TRAMA
Perché Stop Making Sense?
Perché un film?
Perché un tour?
Perché i musicisti entrano gradualmente?
Cosa farà la band la prossima volta?
Da dove vengono quegli strani movimenti?
I concerti sono migliori o peggiori dei dischi?
Perché nessun effetto speciale nel film?
Perché un abito enorme?
Perché è stato usato un sistema digitale per il suono?
Dicembre 1983. I Talking Heads in concerto all’ Hollywood’s Pantages Theater.
RECENSIONI
Nel 1983 i Talking Heads sono un gruppo giunto a un punto cruciale del loro percorso: la collaborazione con Brian Eno si è esaurita con l'epocale Remain in Light, il relativo tour mondiale è stato un trionfo, tutti i membri hanno partorito (ottimi) progetti solistici: David Byrne, oltre al disco-faro My Life in the Bush of Ghosts, con Eno, ha pubblicato The Catherine Wheel per la coreografia di Twyla Tharp; Jerry Harrison ha dato alle stampe il sorprendente The Red and the Black, Chris Frantz e Tina Weymouth, col progetto Tom Tom Club, e il disco omonimo hanno spopolato raggiungendo livelli di vendite sconosciuti agli Heads.
Speaking in Tongues, il disco che si sobbarca della pesante eredità e spazza via le incertezze relative alla sopravvivenza della band, ottiene un largo consenso, vende meglio del "pesante" predecessore, ma, a fronte del magnifico songbook, patisce l'assenza delle strategie sonore di Eno, i magnifici brani ingabbiati in curatissime quanto artificiose gabbie sonore, la voce di Byrne filtrata in eccesso. Il disco, imprescindibile accessorio dei salotti chic-intellò degli anni Ottanta (Bret Easton Ellis lo eternerà in un passaggio memorabile de Le regole dell'attrazione), si muoveva a metà strada tra le sperimentazioni del precedente (il titolo, che si riferisce all'uso di lingue sconosciute dei predicatori in estasi religiosa, si richiama direttamente ai temi e alle suggestioni di Remain in light e al lavoro sulle found voices di Eno e Byrne in MLITBOG), ancora insistendo sulla musica nera, con ampie concessioni al funky e al soul, ma distanziandosene attraverso un approccio più disincantato e giocoso. L'edizione limitata in picture-disc era una creazione di Robert Rauschenberg.
Il tour promozionale presenta il gruppo al meglio della forma, con un suono scintillante che, fortunatamente, butta a mare gli orpelli che soffocavano l'ultima creatura: si confrontino, solo come esempio, le tracce registrate in studio con le trascinanti, viscerali versioni concertistiche di brani come Burning Down the House, Girlfriend is Better o Slippery People (quest'ultima letteralmente nasce a nuova, esaltante vita).
Jonathan Demme assiste a una performance e ne rimane impressionato al punto da proporre al gruppo di trarre un film dall'esibizione: «È stata l'unica volta che mi è capitato, alla fine, di uscire pensando ossessivamente di trarre da quella cosa un film. (...) Il progetto visivo dello spettacolo stesso era fortemente cinematografico. Penso che tutti i membri della band siano insolitamente carismatici, molto coinvolti ed eccitanti da guardare. A parte questo ho avuto dallo spettacolo una strana impressione narrativa, che non potrei descrivere - che non tenterò neanche di descrivere -, l’impressione che stessi guardando una specie di storia, come se sul palco si presentasse un gruppo di nuovi personaggi ogni volta che David attaccava una canzone. Me ne sono andato sentendomi commosso, stimolato e divertito. Ho pensato che fosse molto di più del solito, meraviglioso concerto» [1]
Cosa rende Stop Making Sense un capolavoro, modello a tutt'oggi insuperato di film concerto (ma il regista insiste sulla definizione film-spettacolo)?
Quanto accade sulla scena innanzi tutto: il film all'inizio mostra il palco nudo, privo di scenografie: lo spettacolo è trasparente nel suo farsi e comincia con il solo Byrne che attacca Psycho Killer accompagnato dalla chitarra e da un mangianastri che rimanda la base ritmica. Per il secondo brano, Heaven, entrano Tina Weymouth e il suo il basso; nel terzo (un'esaltante versione di Thank You for Sending Me an Angel) Chris Frantz è alla batteria; solo nel quarto (Found a Job) il quartetto è al completo: la finale ripresa laterale cattura con pienezza miracolosa la dinamica strumentale ed esalta l'incrocio di chitarre elettriche lineari, secche, precise - quella martellante di Byrne, quella a ricamo sublime di Harrison - che si era affermata, all'inizio della loro carriera, come la marca della band e che sarebbe stata soluzione straimitata nei due decenni a venire. Mano a mano che il concerto avanza altri musicisti si aggregano e nuovi elementi si aggiungono alla scenografia: tutto il film si compone come una graduale storia musicale del gruppo - dal rock minimale degli esordi al massimalismo degli ultimi dischi - ogni brano ha un diverso impatto scenico ma indissolubilmente legato al precedente.
L'aspetto cangiante della performance è affidato a soluzioni semplici ed efficaci: pannelli luminosi, gigantografie, giochi di luci imprevisti (che siano quelle sparate dal basso per What a Day That Was, che vestono i volti dei membri del gruppo con ombre che paiono maschere tribali o quelle improvvisate da un addetto che diffonde un fascio di luce con un faro sul palco buio), un costume che non è un costume (il geniale big suit indossato da Byrne), una lampada a stelo accesa («Home/ is where I want to be...»); i movimenti dei musicisti, tra coreografia e improvvisazione, che assecondano la musica con una gioia e un godimento evidenti; l'incredibile, energetica, strampalata performance dell'irrefrenabile uno-nessuno e centomila David Byrne, autore dell'impianto scenico. Puntando su una messa in scena minimale e priva di colori (le attrezzature vennero mimetizzate o dipinte di nero, i musicisti indossano vestiti opachi, le luci sono per lo più bianche), David Byrne cercava quel nitore che aveva notato nelle produzioni del regista teatrale Robert Wilson (il light designer, Beverly Emmons, aveva appunto lavorato col maestro americano) e oggi dichiara di essere stato influenzato dal teatro asiatico e dalla sua tendenza a non nascondere gli artifici («Nel buranku i burattinai manovrano le marionette sotto gli occhi di tutti, nel kabuki gli assistenti salivano sul palco per aiutare l’attore a trasformare il costume» scrive Byrne nel suo volume Come funziona la musica). Lo stesso grande exploit scenico, il big suit, l’abito extralarge che il musicista indossa per Girlfriend Is Better nasce dalle medesime suggestioni («Una sera a Tokio lo stilista Jurgen Lehl citò il vecchio adagio secondo cui sul palco tutto deve essere più grande. Ispirato scarabocchiai l’idea per un look da palco. Un completo, ma più grande e stilizzato come un costume di scena del teatro No», ibidem).
E poi c'è la musica, naturalmente: canzoni di bellezza cristallina che centrifugano l'esperienza del gruppo con momenti di sabba parossistico (Life During Wartime), ironici deragliamenti arty (Making Flippy Floppy), flash dal villaggio globale rappresentati con la debita, schizoide (anti)teatralità (Once in a Lifetime o la marziana-marziale Swamp).
Ma non meno fondamentale fu la capacità di Demme di restituire senza filtri l'energia, la passione, l'entusiasmo del palco, di preservare l'aspetto deviatamente narrativo dello spettacolo, di concedere spazio a tutti i musicisti, di fare dell'esibizione un evento che prescinde dalla dimensione live (il pubblico non viene inquadrato se non alla fine, nessuno spazio al dietro le quinte, nessuna interivista, dichiarazione o alcuna altra concessione convenzionalmente documentaria), una sorta di alieno e gaudente rito musicale privo di coordinate spazio-temporali. L'insieme di questi elementi fecero di Stop Making Sense un vero istant-classic, immediatamente incensato, un'opera che prescinde dal genere per assurgere a grande film tout court, la classica esperienza in cui cuore e cervello sono egualmente coinvolti e che ha l'ulteriore merito di eternare l'esaltante esperienza live di una band seminale che non oserà andare oltre: sarà l'ultimo tour del gruppo.
Stop Making Sense, insomma, non accetta confronti con altri similari progetti, precedenti o successivi. Byrne, per il quale il come andare in scena è discorso di rilevanza pari a quello squisitamente concertistico, ci prova ancora, prima con i film Beetween The Teeth e Ride Rise Roar, legati a due tour cruciali del suo excursus solistico, poi (soprattutto) con American Utopia, diretto da Spike Lee e tratto dal suo spettacolo concettualmente più ambizioso. In quest'ultimo centra l’obiettivo già tentato per lo show filmato da Demme - ma all’epoca rivelatosi tecnicamente inattuabile - di chiudere lo show con la scena smantellata, completamente a nudo: l'ennesimo concerto-installazione trova in Spike Lee un corretto cronista che, senza arrivare a crearne una cinematograficamente autonoma, restituisce l’idea dell’esperienza del live. Ma la magia di Stop Making Sense è lontanissima.
Dal 1983 al 2023
Dopo Stop Making Sense (film e disco) la produzione discografica del gruppo proseguirà ancora qualche anno con tre lavori: Little Creatures (1985), il loro più grosso successo commerciale, True Stories (1986, in cui, come per il precedente, Byrne spadroneggia) e Naked (1988) che in apparenza riequilibra l'assetto del gruppo anche se la cosa suona oggi come l'ultima concessione di Byrne agli altri membri, stante il fatto che alla fine delle session il musicista considerò conclusa la parabola dei Talking Heads. Nel 1989 David Byrne pubblicava da solista Rei Momo e lo portava in tour, riprendendo quell'attività concertistica interrotta proprio all'indomani di Stop Making Sense. Solo nel 1992 veniva ufficializzato lo scioglimento, non privo di strascichi, della band.
Una reunion "coatta" (tre brani suonati dal vivo) si consuma nel 2002, con un Byrne solo formalmente presente, per l'inclusione dei Talking Heads nella The Rock and Roll Hall of Fame.
Chris Frantz, dopo averne lungamente discusso in varie sedi («Non c'è stata alcuna rottura. Ciò che accadde fu che David abbandonò il gruppo. Credo che si sia sempre sentito in qualche modo più importante della band stessa e ritengo che la pensi ancora così. Ma non c'è mai stata alcuna discussione o un momento in cui ci siamo detti: Ok, ci sciogliamo») racconta infine l'intera storia della band (e della sua fine) nel suo memoir Remain in Love (2020). Nel libro - svelando retroscena e sottolineando l'egocentrismo e la dittatorialità di Byrne - sembra archiviare qualsiasi possibilità di una riconciliazione con il frontman della band, stante una distanza ormai sancita dagli anni.
Ma i miracoli avvengono: così, in occasione del quarantennale non solo abbiamo questa strepitosa riedizione in 4K del capolavoro di Demme, ma anche la sua presentazione da parte dei quattro, riuniti in più occasioni (a Toronto sarà Spike Lee a moderare l'incontro). Oggi David Byrne ammette tranquillamente di aver gestito male la rottura della band e di essersi comportato come un tiranno (il breakup non fu effettivamente mai discusso, il suo abbandono fu una decisione che il resto del gruppo apprese dai giornali). Mi piace soprattutto questa sua frase perché scardina la logica facile e ipocrita del senno di poi: «Certo che sarei potuto essere un collaboratore più accomodante, ma nello stesso tempo penso che allora eravamo così, che io ero così e che niente avrebbe potuto cambiare quella situazione, le cose dovevano andare in quel modo». E Tina Weymouth: «È come nelle famiglie: si litiga, ci si ferisce, forse non dimentichi, ma perdoni». In quel “forse” c’è un mondo. Amen.
[1] Da Start Making Sense: an Interview with Jonathan Demme, Michael Dare, L.A. Weekly, 1984
(scheda aggiornata il 05/11/2024)
