TRAMA
Il fuoco: Leola One Feather e Moses Brings Plenty, una donna sacra e un capo spirituale, e la loro piccola comunità Lakota da secoli resistenti a una società che li vuole annientare. La terra: le statue del Duomo di Milano sottoposte a una continua rigenerazione. L’aria: Felix Rohner e Sabina Schärer, una coppia di musicisti inventori di strumenti/scultura in metallo. L’acqua: Shin Kubota, uno scienziato cantante giapponese che studia la Turritopsis, una piccola medusa immortale. L’etere: Marina Vlady, che dentro un cinema fantasma, ci accompagna nel viaggio narrando L’Immortale di Borges.
RECENSIONI
I quattro elementi. Acqua, terra, fuoco, aria. E un a parte performativo per sola voce e proiettore, l’etere: Marina Vlady che recita L’immortale di Jorge Luis Borges. L’icona di un cinema passato, qui-e-ora, sul cui corpo scorre, proiettata, la pellicola. Ci sono l’uomo e il suo museo. L’adesso e il sempre. L’istante e l’archivio. Spira mirabilis è questo movimento imperfetto, quell’a parte il momento di sintesi: il mortale verso l’immortale. Non con foga struggente, ma con lavorio costante, umile, placido. Perché il punto del film non è l’impossibilità lancinante di raggiungere l’eterno, ma la ricerca. Un senso quotidiano, da offrire al mondo. L’infinita fabbrica dell’uomo. La cosa che rende unico questo film è che i protagonisti non sono gli uomini, ma una tensione umana. C’è il Duomo, monumento alla religione, fatto di terra: un’eternità elevata e preservata da una moltitudine di persone, curata giorno dopo giorno da migliaia di lavoratori, uno dopo l’altro, persone delle cui storie il Duomo non s’accorge, e che le statue non riescono a vedere. C’è il processo di realizzazione degli hang, strumenti idiofonici, da parte di Felix Rohner e Sabina Schärer, che lavorano a Berna, fuori dai tempi industriali, dal processo seriale, lasciando aperta la porta all’errore. Una ricerca sempre e comunque perfettibile («la vita non deve essere armonica, è un gioco»), un artigianato che produce oggetti unici, strumenti nuovi (il primo modello è stato messo a punto nel 2000) fatti in modo arcaico. Strumenti che portano i segni del lavoro che li ha prodotti, oggetti irripetibili, marchiati, per sempre, dalla ricerca di cui sono frutto. C’è il quotidiano di Shin Kubota, scienziato giapponese scopritore di una medusa immortale, in procinto di andare a presentare la sua conferenza-show canterino. Un quotidiano umile, routinario, buffo. Un oggetto di ricerca altissimo, assoluto. Un approccio che passa per il faceto e l’effimero (le canzoncine con cui Shin divulga il suo lavoro sono prossime alle sigle di cartoni animati giapponesi, sono il canto di una medusa che si racconta in prima persona). Ci sono i Lakota, e c’è un rito funebre oggi, ci sono i filmati d’archivio che esemplificano un passato d’oppressione. Le immagini e parole, soprattutto, che, da qui, rievocano il passato. C’è il rapporto dell’uomo con la Storia, la lotta perché non s’estingua una tradizione, la speranza di poter vivere in pace e non passare alla leggenda, il poter farsi, finalmente, dimenticare. Il riuscire a essere un semplice e banale mortale, di fronte all’aggressività eternante della Storia (perché il finale, potentissimo, ricorda che chi passa alla Storia non lo fa perché la sua storia di uomo è stata facile, felice: ed in quel fuoco al termine del film c’è suo il senso ultimo, un simbolo letterale, bruciante, da porgere agli uomini bianchi privi «d’occhi e d’orecchie»).
Se c’è dialogo, tra tutte queste parti, tra questi quattro elementi, non è finito. Non c’è nulla da dimostrare, in Spira mirabilis. Quello che D’Anolfi e Parenti sottraggono allo spettatore, quello che continuano a rimandare, a eludere, è il finalismo della macchina cinema, la rassicurante, appagante sensazione di esser di fronte a un discorso chiuso. L’idea che un’immagine si debba definitivamente compiere in un’altra, che debba trovare un equilibrio. Che debba quietarsi in una rima, sfinirsi in una metafora. No. Spira mirabilis accoglie, è sbagliato dire racconta, uno slancio. Immagine dopo immagine, scolpisce una tensione. Disegna la figura del titolo, una spira mirabilis. E dunque non si chiude in un senso: indica un movimento. Il bisogno del mortale di ricercare l’immortale. Di lavorare per conquistarlo. La questione è metafisica. Il film è di un rigore espressivo radicale, radicalmente materialista: se da un lato i registi rifiutano il montaggio per analogia, il cine-discorso, l’opera-tesi, evitano anche la mistica del cinema contemplativo, la retorica del documentario d’osservazione. Non attendono la rivelazione del vero tramite l’attesa, tramite la religiosità della durata. Ricostruiscono processi. Punto. Non cercano il lume improvviso, il senso insperato di un gesto insignificante, ma mostrano gesti precisi, in cerca di un senso. La logica è quella del documentario industriale: e Spira mirabilis è anche e soprattutto un film sul lavoro.
Lo diciamo chiaramente: è difficile pensare possa esserci un cinema tanto umile verso il proprio ruolo nel mondo, e verso lo spettatore. Un’opera che, come questa, non si vuole mai assoluta, ma che tende alla semplice macchina analitica. Spira mirabilis riconosce la prossimità di quattro storie, le racchiude in una struttura che è architettura e non letteratura (non costruisce mai miti, lo ripeto: accoglie dati e li fa circolare, come fosse - mi suggerisce Alessandro Baratti, «una cassa di risonanza»), e guarda con occhio neutrale, scientifico, quello che esiste. Sfuggendo a ogni idea di trascendente, o di poesia che non sia già nella mera presenza. Facendosi stupire dalle meduse al microscopio, dalla polvere nell’aria, dal movimento della sabbia sugli hang, da un tenero filmato d’archivio con una bimba che gioca con gli animali. E cogliendo in tutti quei riflessi - tra vetri, specchi, immagini che si sovrappongono - il continuo movimento del mondo, un’immagine sempre alla ricerca di un’altra immagine, una perenne spinta a mutare, a sognare. Nessuna stasi, tutto slancio. Tutta ricerca, e nessun certo appagamento. In tutto questo, il lavoro sul sonoro è fondamentale: da un lato aggredisce lo spettatore, spostando l’attenzione dalla beltà delle immagini alla presenza delle cose riprese, riportando dal discorso al gesto, dal cinema al mondo. Dall’altro, con un amore per il cinema di infinito candore, come un film fantascientifico infantile, come a cambiare i legami tra dimensione uditiva e visiva, trasforma la macchina analitica in cinema di ri-animazione: le statue respirano, le meduse fan rumori da cartoon, e il film riattiva una parte di mondo nascosta, un dialogo tra le parti inudibile, e dimenticato. Ecco: Spira mirabilis offre allo spettatore un’esperienza di riconoscimento del mondo. Un punto da cui guardare (e ascoltare), prima che una visione. L’unica presunzione, di fronte a questo film - oggetto (e sguardo) unico, non solo in Italia, non solo nel cinema documentario - è quella di chi gli chiede di essere ciò che non è: il provincialismo non è solo una questione geografica. È anche un fatto di sguardo.
