Documentario, Sala

BESTIARI, ERBARI, LAPIDARI

NazioneItalia, Svizzera
Anno Produzione2024
Durata206’

TRAMA

Un documentario “enciclopedia”, diviso in tre atti, ognuno dei quali tratta un singolo soggetto: gli animali, le piante, le pietre. Il film è un omaggio a quei mondi “sconosciuti” e per certi versi davvero alieni, fatti di animali, vegetali e minerali, che troppo spesso diamo per scontati, ma con cui dovremmo essere in costante dialogo dal momento che costituiscono la parte essenziale della nostra esistenza sul pianeta Terra.

RECENSIONI

L'immagine verrà al tempo della resurrezione
(San Paolo - apocrifo? - attraverso Jean-Luc Godard)

È un film-mondo l'ultima monumentale opera firmata Massimo D'Anolfi - Martina Parenti, presentata all'ultimo festival veneziano e ora in tour nelle migliori sale italiane con il supporto di FilmTv. È una presenza monumentale non solo per la durata e perché programmaticamente si propone Gesamtkunstwerk abbracciando i tre regni dai quali è composto il mondo naturale e quindi tutto il materiale su cui si fonda l'esperienza umana. C'è anche l'intenzione di generare discorsi alle radici e sulle strutture portanti del mondo. Nelle parole dei registi, «Bestiari, Erbari, Lapidari, nella sua totalità, procede come un film-saggio: la videocamera puntata su ciò che accade davanti ai nostri occhi e alle nostre orecchie. Il racconto ha una struttura narrativa che combina pensiero razionale ed emotivo. Crediamo che il nostro compito sia quello di “re-inventare” una visione e una rappresentazione del reale e cercare di instaurare relazioni vitali tra gli elementi che compongono le inquadrature dell’opera. A ogni spettatore il compito di arricchire il film con il proprio bagaglio di esperienze, interessi, letture o visioni cinematografiche». Sarà una coincidenza che, a me, per scrivere di Bestiari, erbari, lapidari siano venuti in mente molti dei registi e scrittori che più amo e proprio loro?
Leggi titolo e sinossi e pensi subito a Peter Greenaway. In realtà è una falsa pista: pochissimo è in comune con l'opera del maestro gallese mancando completamente il distacco rispetto alla materia, il divertissement e il gioco intellettuale. Invece il riferimento autoriale più costante - su più livelli che vanno dalla lettera di ciò che passa sullo schermo fino all'ontologia delle immagini - è il Werner Herzog documentarista. E non soltanto perché sulla locandina troneggia un pinguino. Si ritrovano particolarmente L'ignoto spazio profondo e Encounters at the end of the world come Into the inferno per la volontà di edificare un discorso totale sul rapporto tra uomo e mondo, uomo e physis distorcendo l'enciclopedia attraverso il punto di vista soggettivo. La prima di svariate deviazioni dal tracciato enciclopedista ortodosso di derivazione illuminista balena già nelle prime, fantasmagoriche immagini che aprono il film: riprese di operazioni chirurgiche effettuate su animali. Osservare la carne aperta, i tessuti, la fisiologia pura genera spontaneamente senso nello spettatore, impone le strutture della vita senza indirizzare l'interpretazione. Per esempio c'è l'evidenza terapeutica della chirurgia ma passa sopra e attraverso una evocazione della manipolazione dell'animale da parte dell'umano. Inoltre dalle radiografie il passo verso il proto-cinema di Muybridge è ovviamente automatico e immediato e così è subito messo in chiaro che il perimetro d'indagine è triangolare e che il terzo vertice è l'immagine filmica. Le riprese, la registrazione audio hanno permesso il progresso di ecologia e etologia, lo studio dei comportamenti animali e le conclusioni raggiunte spesso sono state traslate all'uomo e usate dai totalitarismi - ma non solo da loro - per perfezionare le tecniche di controllo. D'Anolfi e Parenti non alimentano alcuna illusione a proposito dell'innocenza delle immagini.
La prima sezione è la più discorsiva, la più chiaramente saggistica: mentre scorrono found footage strabilianti provenienti dalla spedizione polare di Amundsen oppure dai primi safari africani con cinepresa a seguito viene detto chiaramente in voice over che le missioni scientifiche coloniali producevano dati per gli studiosi, reperti per i musei e immagini finalizzate anche a reperire e moltiplicare gli investimenti. Le immagini, è innegabile, sono potenti ma quasi sempre il loro potere è strutturale al Potere economico e politico - una tesi sostenuta dall'altro padre nobile che continua a aleggiare sul capitolo "Bestiari", John Berger, il quale significativamente teorizzò da par suo anche le ragioni che ci portano a osservare gli animali. La caccia - o il suo surrogato esplicito cui manca solo il sangue ossia il safari fotografico - è una appropriazione che serve a trasformare gli animali e la loro irriducibile alterità selvaggia in trofei, simboli del dominio umano. Le immagini documentano un mutato rapporto reciproco, l'attraversamento imperialista del confine che separa l'umano dal resto. È illuminante anche il paragrafo dedicato alla co-evoluzione tra l'architettura degli zoo e le tecniche di ripresa animale, esplicitamente foucaultiano come l'individuazione della raggelante e parlante identità morfologica tra gli allevamenti di volpi e i lager nazisti.

Bestiari, erbari, lapidari è opera foucaultiana anche in un senso più profondo e strutturale. Gli autori si appoggiano alla pratica archivistica, mettono in piedi un monumentale lavoro di ricerca iconografica storica e lo riordinano con piglio enciclopedico, dandogli la forma di un discorso generale sul mondo ma non perseguono la sistematizzazione, anzi il contrario. Inoltre se l'Encyclopédie dell'età dei Lumi serviva a fondare un ordine del mondo, D'Anolfi e Parenti come ne La storia della follia nell'età classica o ne La storia della sessualità organizzano una contro-storia per contestare l'ordine ontologico e deontologico costituito, muoversi tra il materiale raccolto secondo scarti, traccianti obliqui, traiettorie rizomatiche e lacune rifondando una visione del mondo non certo completamente inedita ma alternativa rispetto a quella sposata dal potere nei secoli recenti. Chiaramente, semplificando e banalizzando, al centro di questa visione ulteriore c'è il superamento dell'antropocentrismo, come da cornice («Un giorno nel sogno del Gorilla...») ossia il racconto cosmogonico della rottura dell'armonia animista attuata dalla separazione dei sapiens. E, in senso visivo, la denuncia - anch'essa anticipata da John Berger - della sostituzione dell'immagine alla cosa, del simulacro al vivente che ha coadiuvato l'estinzione di tante specie animali. Fin qui l'oggetto del primo, densissimo capitolo, stratificato e pieno di fossili come un testo di W.G. Sebald - e Sebald risuona potente in tutti i footage di guerra, dall'addestramento canino sotto tiro fino alle immagini fantasmatiche dei palazzi bombardati che si sbriciolano nella terza sezione: in ogni caso si resta il segno della catastrofe e si fa una storia naturale della distruzione. Resta da dire del come e quindi perché Bestiari, erbari, lapidari colpisca dalle prime battute come un'opera eccezionale. Innanzitutto perché, esattamente come l'uomo può utilizzare gli isotopi per Hiroshima come per la ricerca medica, i registi si appoggiano al potere delle immagini spesso create a scopo imperial-coloniale o capitalista-estrattivista per veicolare un discorso oppositivo. C'è una evidentissima, herzoghiana impuntura per riprese pregne di verità estatica, di "primavoltità", di paesaggi fisicamente o idealmente impazziti. La prima differenza rispetto alla media documentaristica è qualitativa.
La seconda sezione è dedicata al regno vegetale e vira dal film di montaggio all'observational film (alla Wiseman, con varianti) mirato sull'Orto Botanico di Padova, il più antico al mondo. Il movimento dialettico è chiaro fin dal sottotitolo - "La cura" - che si oppone alla prima sezione dove venivano illustrati molteplici soprusi dell'uomo sulla natura. È un'altra modalità di un rapporto inevitabilmente complesso come sono tutti i rapporti tra consanguinei stretti ed è chiaramente preferibile perché Donna Haraway risuona potente in ogni questione aperta della contemporaneità. Le differenti pratiche di cura attuate nell'Orto padovano, le azioni e procedure dei suoi dipendenti dai giardinieri ai ricercatori, oltre agli stessi ambienti sono inquadrati e ripresi in modo da amplificarne il più possibile l'aspetto extraterrestre, la patina eerie sotto la simmetria centrale razionalizzatrice che fa scuola di Dusseldorf: un altro ritorno, stavolta letterale, dell'Herzog antartico. Come detto, Bestiari, erbari, lapidari è un movimento graduale verso l'afasia, verso l'immagine lasciata a parlare da sola. Il parlato del secondo capitolo si limita alla registrazione di una conferenza che detta il tema: «Cosa succede al mondo quando non ci siamo noi?». Nonostante le commoventi immagini di cura e amore girate a Padova, le evidenze scientifiche dicono che la fitomassa occupa il 99,7% della biomassa complessiva del pianeta, che l'Antropocene è una minaccia (una condanna?) esistenziale certa per i Sapiens ma in fondo è principalmente un problema nostro, la vita è più forte e la natura non ha proprio bisogno di noi. Se la vita media di specie sulla Terra è attorno ai 5 milioni di anni, possiamo ragionevolmente smettere di sperarci e farne una ragione: siamo una specie mediocrissima come tempistica e a occhio l'unica capace di auto-estinguersi. Le piante invece ce la faranno e del resto sono organismi clonali con tempi immensi e lentissimi e quindi per noi letteralmente invisibili. Ancora una volta arriva una dimostrazione della potenza del cinema: possiamo vedere le piante muoversi (e spaccare vasi, spostare assi) solo grazie ai supporti ottici. Il cinema rivela il movimento, anche di ciò che crediamo fermo.
L'Erbario di Guerra raccolto sul fronte austriaco da uno studente di botanica ucciso nella Prima Guerra Mondiale è custodito a Padova e risulta con la sua evidenza straziante un compendio sebaldiano del discorso sull'ambiguo potere dell'uomo e sul suo ambiguo rapporto con la physis. È un oggetto d'amore (il meglio dell'uomo) creato al centro della guerra (il peggio dell'uomo). L'archivio fisico - presso l'Orto Botanico dove è custodito - e immateriale - il film che lo mostra e racconta - servono affinché non vada perduto e possa superare anche l'aspettativa di vita organica dei reperti. La potenza delle immagini si manifesta, nonostante tutte le ambiguità etiche e ideologiche di cui si fanno portatrici, aiutando la persistenza della memoria. Sappiamo in realtà che tutte le immagini, anche quelle digitali, scompariranno - è anche l'incipit folgorante di uno dei romanzi recenti più proustiani, più ossessionati dal salvare il mondo dall'oblio, Gli anni di Annie Ernaux - ma se davvero l'uomo è destinato a una rapida estinzione quantomeno i reperti potrebbero sopravviverci un poco diventando "fossili del futuro" che è poi il titolo del terzo capitolo.

Il terzo tempo della costruzione sinfonica per movimenti segue la struttura pregressa e si fa muta e pressoché senza commento. Se i temi palesi sono i tecnofossili, l'estrattivismo, le interdipendenze e indipendenze tra sapiens e natura prima al tempo dell'Antropocene, nuovamente e prontamente si innestano i tempi dell'archivio e del rapporto con le immagini. L'archivio, celebrato giustamente come strumento amoroso che vince la morte, viene altrettanto giustamente mostrato nelle sue applicazioni più terribili, filmando gli schedari di dissidenti e nemici pubblici redatti dalla polizia fascista e nazista. L'archivio è, come tutto il resto, territorio ambiguo. Così seguiamo l'intero processo artigianale di fabbricazione delle pietre d'inciampo poste nei selciati cittadini per commemorare gli ebrei sterminati dai nazisti, i caduti della Shoah. Anche loro diverranno un tecnofossile, intanto sono un esempio di materia manipolata per veicolare un gesto etico. A fare tutta la differenza è sempre la deontologia ed è proprio nel discrimine costantemente applicato alle immagini uno dei caratteri determinanti l'idea autoriale di cinema e l'altezza e profondità di D'Anolfi / Parenti. Come per il nume tutelare Herzog, la ricerca spasmodica di immagini nuove non prescinde mai dal vaglio etico e non cede mai al sensazionalismo. C'è una salda idea relazionale di cinema: relazione tra concetti, immagini, saperi ma anche teleologia relazionale, pulsione al making kins harawaiano. In questo senso Bestiari, erbari, lapidari permette uno scatto in avanti al genere essay: mostra qualcosa di nuovo purché esso sia anche vero.
Jean-Luc Godard trova o inventa l'aforisma di San Paolo - «L'immagine verrà al tempo della resurrezione» - facendone il suo motto in chiusura di anni '80, il decennio in cui la neolingua della pubblicità e del capitalismo trionfante ha definitivamente fagocitato il mondo desertificandone il senso. Apre il decennio successivo con un capolavoro umanista come Nouvelle vague, l'ennesima storia di un disertore - stavolta Alain Delon che stavolta diserta dai giochi linguistici del capitale e quindi dalle forme di vita che sostanziano. In un certo senso accade l'opposto rispetto a Bestiari, erbari, lapidari: nella prima parte del film i personaggi sono parlati dalla lingua del marketing e della finanza e non dicono niente ma gradualmente ritrovano parole d'amore che aprono il mondo. Verso la fine Delon proclama: «dentro di me ci sono solo parole che mi faranno risorgere». La questione del linguaggio è centrale nel capolavoro di D'Anolfi / Parenti e ne fa un'opera resistente rispetto a qualsiasi richiesta di spettacolo, semplificazione, manicheismo, un'opera che segna un progresso nella linea dell'essay film come in passato le pietre miliari di Chris Marker o Jonas Mekas. Non solo mostrare qualcosa di nuovo purché sia vero, soprattutto mostrare cose vere con immagini nuove. Che fanno risorgere il senso nel mondo.