Focus, Psicologico, Recensione, Thriller

SHUTTER ISLAND

Titolo OriginaleShutter Island
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2010
Durata138'
Sceneggiatura
Trattodall'omonimo romanzo di Dennis Lehane
Scenografia

TRAMA

1954. L’agente federale Teddy Daniels si reca a Shutter Island, al largo di Boston, dove si trova l’Ashecliffe Hospital, un manicomio criminale. Deve ritrovare una detenuta scomparsa, Rachel Salando. Un uragano si abbatte sull’isola…

RECENSIONI

Nel decennio che si è chiuso Scorsese avrà anche ottenuto il tanto sospirato Oscar, ma non ha lasciato una traccia  raffrontabile al suo glorioso passato: ancora per tutti gli anni 90 il regista riusciva a mettere al servizio della dirompente epica di Good fellas e dello sperimentalismo barocco di Casino - due opere imperfette quanto centrali per quel decennio di cinema americano, che ne venne marchiato incontestabilmente - il suo folgorante senso del cinema. Accanto ad essi Cape Fear, meno importante dei sopracitati, ma sostanzialmente più quadrato e lucido e che, complice la committenza, rappresentò una salutare deviazione nel genere (che, nella carriera dell’autore, si va ad associare ad altri tipi di controversa deviazione – L’ultima tentazione di Cristo, L’età dell’innocenzaKundun -) senza alcuna abdicazione dal soglio autoriale. Tutto questo è mancato negli anni zero, periodo anodino in cui il talento di Scorsese si è diluito in progetti e progettoni (il survoltato e non disprezzabile biopic The aviator) nei quali la sua intelligenza registica un po’ si dissipava, il binomio estetica-etica si divaricava (anche laddove ci si sarebbe aspettato il suo matrimonio più felice: il tanto inseguito affresco dell’irrisolto Gangs of New York) e il torturante duello tra Bene e Male si appiattiva in formula (The departed), decennio in cui se da un lato avveniva l’incontro con un nuovo straordinario attore feticcio (Di Caprio, il migliore dell’ultima generazione, saliva sul trono che fu di De Niro) dall’altro si registrava la latitanza di quel senso delle cose, quella dilaniata visione della realtà che sembrava lasciare il posto a un diverso tipo di dilemma interiore, quello tra autonomia dal sistema delle major e comoda integrazione.

Shutter Island giunge con queste premesse e nel Bene e nel Male (per l'appunto), le supera, affermandosi come film che, dell'opera minore che è, ha soprattutto i pregi: partendo dal bel romanzo di Lehane (già autore di Mystic river e Gone baby gone, tanto per citare altre due opere ridotte per lo schermo) Scorsese costeggia le vie del genere senza però consegnarsi ad esso, usandolo, senza soggiacervi; sulla carta il film sarebbe un thriller, di esso presenta elementi, plot, ambientazione, personaggi, ma il suo andamento, il tipo di attenzione riservato allo sviluppo delle vicende, il blando crescendo che lo segna, contraddicono tale premessa; Scorsese non asseconda quasi mai il congegno della tensione, puntando l'attenzione sul personaggio principale, facendone una maschera tragica, ponendo le vicende che egli vive sullo sfondo, considerandole quasi strumentali a quello che è il suo percorso interiore, che viene decisamente privilegiato. La volontà di operare una sorta di svuotamento della suspense per concentrarsi sull'aspetto umano ed emotivo, la si nota anche dalle scelte di una sceneggiatura che elimina buona parte dei dialoghi più interessanti del testo letterario, molte complessità legate al meccanismo della narrazione e uno degli elementi più spettacolari (il rinvenimento, e la conseguente risoluzione, degli indizi in codice disseminati in quello che scopriremo un coatto excursus investigativo, motivo tra i più seduttivi della pagina scritta e qui praticamente omesso - Teddy, quale ex agente federale, è un esperto decodificatore di messaggi cifrati, il che giustifica anche gli anagrammi del nome proprio e della moglie che opera per favorire la rimozione della sua colpa -). Ma la volontà del regista di distaccarsi dai paradigmi la si nota ancora di più se si riconduce Shutter Island a uno dei filoni più sfruttati negli ultimi anni dal cinema americano: quello del film a chiave con agnizione finale che costringe a rivedere sotto altra luce quanto è stato narrato, che impone una re-visione dell'opera. Anche in questo senso il film contraddice la premessa: Scorsese non fa nulla per dissimulare lo stato confusionale del protagonista, non ha remore nello scoprirsi riguardo alla descrizione del suo malessere, i passaggi onirici sono sempre, fin dall'inizio, manifestamente allucinatori: la rivelazione conclusiva, dunque, non giunge inaspettata alla luce del percorso visionario che Teddy conduce (l'incipit in tal senso è programmatico: una nave emerge da nebbie apertamente simboliche, a seguire stacco su Teddy che vomita); lo svolgimento dell'indagine è borderline come colui che la conduce; persino il fatto che il protagonista indossi per quasi tutto il tempo la tenuta tipica del luogo, non fa che legittimarlo come 'interno' all'istituto allo sguardo dello spettatore. Scorsese non usa, insomma, nessuna delle furbizie tipiche del genere che sta(rebbe) praticando, rimanendo saldamente attaccato all'obiettivo della sua rappresentazione: l'uomo Teddy, il suo carattere (Di Caprio è onnipresente, in una prova superlativa che doppia quella di un altro personaggio visionario, lo Hughes di The aviator), il suo percorso guidato verso la coscienza e l'espiazione del male commesso, la praticabile convivenza col senso di colpa ad esso avviluppato (l'uccisione della moglie, il non aver protetto i suoi figli dalla follia di lei e, in precedenza, la devastante esperienza della violenta liberazione del campo di Dachau).
Scorsese non accentua, ma lascia in debita controluce, anche le possibili messe in abisso che il finale potrebbe dischiudere: se, come dice la dottoressa nella grotta, i pazzi negano di esserlo e quindi, una volta che sei considerato tale, tutte le tue azioni volte a dimostrare il contrario sono destinate invece a rientrare nello spettro di quelle commesse da un malato di mente, l'esplicita azione volta a dimostrare che invece pazzo lo sei (la scena finale: il non riconoscere, da parte del protagonista, Sheehan come il suo psichiatra, ma, di nuovo, come Chuck, il suo compagno di investigazione), potrebbe essere una manovra lucida per sfuggire definitivamente a quel senso di colpa col quale non riesce a convivere, per ottenere finalmente la sua definitiva estirpazione attraverso la lobotomia; l'intervento chirurgico sarebbe dunque cercato, voluto, ottenuto attraverso un atteggiamento che risponderebbe, con una contrapposta finzione, alla finzione che dominava la 'drammatizzazione emotiva' concertata ad arte dai medici, che ha coinvolto tutti gli abitanti dell'isola e che ha condotto Teddy a riappropriarsi della colpa dalla quale ha tentato di fuggire per due anni (altri territori interpretativi possono essere battuti, in primo luogo politici, e altre letture sono possibili, come quella della demonizzazione del complottismo come deriva paranoica, stratagemma con il quale il Sistema si tutela, e/o Shutter Island come possibile proiezione mentale di un protagonista - cfr. Allucinazione perversa di Adrian Lyne - sottoposto a trattamento manipolatorio ecc.). L'autore, questo ci preme dire, per quanto non li disinneschi, non sfrutta questi elementi di ambiguità, e dimostra, con una vivacità che non gli riconoscevamo da tempo, il duplice carattere del suo cinema, estremamente disciplinato e al tempo stesso estremamente ribelle,  da un lato legato a filo doppio ai classici, dall'altro sprezzante delle regole come pochi altri. Se le atmosfere richiamano dunque i noir anni  40 e 50  (accanto alla complessità dell'intreccio, fa riscontro, classicamente, la semplicità di alcuni riferimenti - gli occhiali freudiani di Von Sydow -), l'ombra di Hitchcock e le sue figure mentali si stagliano peraltro sul film e non solo per i dati tematici e per la loro elaborazione (da Psycho a Marnie, passando per Il sospetto), ma anche per il modo di trattare l'immagine (Vertigo, Gli uccelli); ancora una volta, però, lo Scorsese cinefilo (anche Fuller è della partita) non cita, i riferimenti sono parte integrante del suo pensare cinema e agiscono naturalmente all'interno del suo film, la storia della settima arte è introiettata nel suo occhio e si mostra senza calcoli, il regista non abbassando mai lo sguardo da quello che ha deciso di porre come epicentro del suo film: il personaggio, le sue parole, le sue azioni.

Insomma, pur nei limiti di un'opera chiaramente commerciale, è uno Scorsese piuttosto oscuro e sconcertante quello di Shutter Island, che tratta dell'insostenibilità del peso della Colpa e della sua rimozione (cfr. Angel Heart di Parker); che fa dell'isola del titolo un teatro asfissiante popolato di presenze e assenze, spazio chiuso in cui si mettono in scena ossessioni; che cala il protagonista in un incubo costante, con la tempesta metaforica come minaccia incombente; che è attratto dal labirinto non tanto per le sue implicazioni narrative (la macchinosità non viene mai ribaltata a vantaggio della spettacolarità, anzi), quanto per le conseguenti atmosfere mortuarie e soffocanti, sottolineate dalla consueta, percettiva macchina da presa (la splendida fotografia è di Robert Richardson), un film in cui il regista punta sul linguaggio, più palesemente rispetto al passato prossimo. Se i flashback di Dachau sanno di brutta maniera, le apparizioni fantasmatiche dimostrano felici intuizioni (la sublime pioggia di cenere), la parte del Padiglione C è di vaneggiante bellezza, il prefinale (la sequenza sul lago che segue al massacro dei figli da parte di Dolores) è di intensità drammatica quasi insostenibile, e se tutto quello che vediamo è una messinscena (il colossale psicodramma) allora è lo stesso film che la presenta continuamente come tale (elemento questo che ci ricorda The game, riferimento che, associato al tema dello allo sdoppiamento di personalità - Fight Club - ci fa pensare molto a Fincher): il regista come al solito rimette tutto al visibile e non la dissimula, anzi la sottolinea e a tratti quasi la enfatizza; se tutto avviene secondo un copione che parte dalla piena conoscenza del delirio di Teddy, un delirio loopato ai medici per due anni, se la rappresentazione inconsapevole deve servire come percorso che conduca Teddy/Andrew alla piena coscienza di sé (molto scorsesiana questa cosa, tra l'altro), in cui tutto è programmato per fare luce sui suoi ricordi, sollecitati da elementi strategici a lui familiari (dalla musica di Mahler nello studio del direttore, alla paziente fuggita, assassina di tre figli), al più ampio gioco rivelatorio allora partecipa lo stesso Scorsese (ad esempio quando la mdp inquadra Ruffalo, ogni volta che si fa riferimento al dottor Sheeane), rimarcando il dato, prevedendo la revisione dell'opera da parte dello spettatore sedotto.

Segnali d'allarme erano timidamente risuonati per tutto il decennio appena trascorso, nell'incompiuto, barbarico eppur ancor potente Gangs of New York, nello schizoide american dream politicamente cauto ma visivamente fiammeggiante di The Aviator (che comunque ha uno dei migliori finali scorsesiani di sempre), nel grande e innocuo mestiere di The Departed (che inoltre pagava il confronto, inutile negarlo, con l'esplosiva trilogia Infernal Affairs di Andrew Lau e Alan Mak). Il rischio paventato? La museificazione precoce, la visionarietà dirompente ridimensionata in diligente virtuosismo. In Shutter Island il cinema di Scorsese sembra diventare per l'appunto isola-mausoleo, fortezza autoreferenziale. Il regista gioca d'accumulo e finisce ostaggio degli stessi pezzi del suo elegante e cupo meccanismo. La fotografia di Robert Richardson, il montaggio di Thelma Schoonmaker, le scenografie di Dante Ferretti, i preziosi apporti di tutti i fidati collaboratori (cui aggiungerei anche lo score assemblato da Robbie Robertson, una selezione classica-contemporanea di sicuro impatto), si giustappongono e non si stratificano. Lo sguardo del regista coordina ma non domina. Senza voler scadere in una infruttuosa e antistorica nostalgia, il virtuosismo vertiginoso e olistico di Casinò è comunque ben lontano.
Thriller psichiatrico sulla Colpa e l'Oblio, melodramma gotico sulle prigioni della mente, Shutter Island s'impernia su una sceneggiatura abbastanza grossolana tratta da Dennis Lehane (scrittore adattato con ben altra e probabilmente doverosa asciuttezza da Eastwood e perfino da Ben Affleck) che Scorsese pensa bene di enfatizzare stipando l'inquadratura di atmosfere espressioniste minacciose e disorientanti, soggiogandola a un'inquietudine principalmente scenografica. Shutter Island non dà respiro ma non ha neanche un vero respiro: Scorsese inquadra tutto, inquadra troppo, procede per continue sottolineature, lo sguardo si offusca, viene sostituito da una lavagna esplicativa. Il contenitore cinefilo implode nei suoi significati: i dichiarati omaggi ai thriller/horror della RKO prodotti da Val Lewton e ai noir del primo dopoguerra sono paradossali (Tourneur traeva forza proprio dall'inquietudine dell'invisibile, dal rimosso del fuoricampo, Lang scompaginava la linearità del plot con ambiguità tanto più divoranti quanto più sotterranee), gli hitchcockismi di superficie, il barocco wellesiano delle prigioni piranesiane di pregevole ma decorativa fattura (mi lascia perplesso la citazione da più parti de Il corridoio della paura di Samuel Fuller, riferimento a ben vedere, se c'è, puramente tematico ma non tanto di linguaggio). Esercizio di stile sul genere dunque? Altri risultati aveva dato un'analoga operazione (sia detto, su altro tipo di thriller), il mai troppo apprezzato Cape Fear (richiamato quasi esplicitamente nel tatuaggio cristologico impresso sulla schiena di un recluso del Padiglione C affine a quello di De Niro nel film del 1991) dove il parossismo furibondo della regia rivoltava il manicheismo narrativo e il grottesco deformante corrodeva ogni tentazione declamatoria. Piuttosto, forse, esplorazione di una tendenza più recente del cinema di suspense americano, come ha già sottolineato Luca Pacilio, quello del film a chiave con rivelazione finale che ribalta quanto visto fino a quel momento (Shyamalan, Fincher e, più giù, anche il Marc Forster di Stay, giusto per fare qualche nome). Però, con buona pace di qualsiasi licenza d'autore o dimensione allucinatoria dichiarata fin dal principio, l'ovvietà della soluzione indebolisce ad ogni modo una struttura narrativa siffatta, ancor più se zavorrata da una seriosità fuori scala, e ne depotenzia il perturbante (che, ad esempio, rimane invece intatto in un film dalla costruzione notevolmente analoga e similmente "atmosferica" come il bistrattato Angel Heart di Alan Parker). La riflessione scorsesiana sull'inestirpabile violenza annidata nell'uomo si sostanzia di grevi riferimenti che vanno dalla Shoah ai Gulag alla caccia alle streghe maccartista, perde intensità in verbosità roboanti (l'altisonante discorso del direttore della prigione sul tema "Dio ama la violenza" è tutto da confrontare con il delirio biblico di Max Cody/De Niro, sempre in Cape Fear) e l'ambiguità finale non dissipa del tutto un retrogusto vagamente rinunciatario, se non reazionario, rispetto alla disturbante carica politica innescata durante l'indagine del protagonista (le istituzioni che ad ogni modo si prendono cura, per quel che possono, del senso di colpa del cittadino).
L'occhio di Scorsese non è dimentico di sé (la prima sequenza onirica impregnata d'acqua, sangue, cenere, l'implacabile carrello sulla feroce e improvvisa esecuzione degli ufficiali nazisti, le inquadrature a piombo sulla scogliera che "cancellano" il personaggio) ma s'impantana in alcune imbarazzanti cadute di gusto (il ridondante flashback conclusivo nella casa sul lago e soprattutto le bruttissime parentesi nel campo di concentramento di Dachau, con cataste di cadaveri posticce ai limiti dell'osceno). Di contro, al centro di uno sfocato cast di contorno, non so quanto per volontaria scelta registica e narrativa (la prova di Mark Ruffalo è resa opaca dal suo stesso personaggio, Kingsley e von Sydow si limitano alla maschera, rozzamente infelice il cameo di Elias Koteas, soffocato da uno sconsiderato make-up che lo rende identico al Frankenstein/De Niro dell'orrido film di Branagh, persino un'attrice eccezionale anche su brevi percorsi come Patricia Clarkson ne esce un po' anonima), al centro di questo cast, si diceva, giganteggia Di Caprio in un'ennesima prova di fisica disperazione e psicotica sofferenza, faro di dolorosa grandezza che permette al film di non infrangersi del tutto sulle scogliere dell'autocompiacimento e di aprire spiragli sull'esterno, autentico "mezzo (attoriale) del futuro". Opera ostinatamente chiusa in sé e nell'esercizio di un talento non dissipato ma come congelato (frutto forse di troppa diplomazia nel trattare col sistema produttivo?), non priva di un involuto e faticoso fascino, dell'arte scorsesiana Shutter Island costituisce vetrina perversamente patinata, preziosa ma lugubre accademia.

Rischioso il racconto con colpo di scena che ribalta le premesse iniziali, ma Scorsese è un grande conoscitore del linguaggio cinematografico classico: parte con cieli plumbei in odor di tempesta che richiamano il bianco e nero dei polizieschi/noir/thriller anni quaranta, s’addentra nelle cupe, meravigliose scenografie del manicomio (un’isola fittizia, mix di varie location) e riporta alla mente Il Corridoio della Paura di Sam Fuller, Bedlam e Il Vampiro dell’Isola di Mark Robson o, più in generale, gli horror d’atmosfera, impregnati di ombre claustrofobiche di Val Lewton; ma anche Il Processo di Orson Welles (per il percorso kafkiano, assurdo e con fare barocco), Il Ritratto di Jennie (per il maremoto, il faro, l’onirismo), Le Catene della Colpa (per la disperazione nel non riuscire a liberarsi del proprio passato), La Donna che Visse Due Volte (le inquietanti sequenze sulle scale, il senso di vertigine del racconto) e il Polanski di Cul de Sac e Repulsione (gli ambienti ammorbati), mentre i ricordi/traumi del protagonista associano la pratica psichiatrica nei manicomi ai campi di sterminio nazisti, denunciando le nefandezze dell’essere umano. La scelta del romanzo “L’isola della paura” di Dennis Lehane (Mystic River) pare un tentativo di bissare il successo di The Departed, affidandosi ad un cinema di genere alla Cape Fear, ma il tema del senso di colpa è tutto scorsesiano e l’opera vive della particolarità di un protagonista con tratti poco eroici, pronto ad affermare che i pazienti non hanno (o meritano) speranza, propenso alla violenza, schiavo dei propri fantasmi. Mentre disquisisce, quindi, del labile confine fra follia e sanità mentale, il film intesse trame misteriose ed intriganti, attento a pennellare ogni piccola figura in modo deciso e pittoresco, più dramma psicologico che thriller, laddove il disturbo mentale sovrasta la paura. L’insipido colpo di scena finale impoverisce le premesse ma Scorsese e la sceneggiatrice Laeta Kalogridis di Alexander (stessi pregi e difetti: spunti altolocati e scivolate nei bassifondi) hanno l’intelligenza di non renderlo protagonista, preferendogli l’analisi psichiatrica a ritroso, rileggendo con chiave diversa il mostrato.