TRAMA
Un anno turbolento nella vita di una famiglia borghese nella Città del Messico degli anni Settanta. La giovane domestica Cleo lavora per Sofia, madre di quattro figli. Entrambe le donne si trovano ad affrontare notizie sconvolgenti che le spingeranno ad unire le forze verso le costruzione di un nuovo senso di amore e di solidarietà.
RECENSIONI
Premessa
Come in ogni grande film che si rispetti, una singola inquadratura può rendere visibile, in qualche maniera, tutta l’architettura discorsiva e sentimentale dell’intera opera. Nella fattispecie, in Roma, constatiamo come un quadro (il primo, oltretutto) possa anticipare una serie di ripetizioni significative per lo sviluppo del discorso filmico: un dettaglio dall’alto sul pavimento di un vialetto; l’acqua che scorre sulla superficie delle piastrelle e che rende visibile, quasi disegnandolo, un bagliore di luce; il riflesso sull’acqua di un aereo. La vicenda di Cleo, domestica nativa sudamericana al soldo di una famiglia borghese bianca di Città del Messico (che poi sono i Cuarón stessi: il film è il racconto dell’infanzia di Alfonso, ma la storia di Cleo sta al centro di tutto), si dipanerà appunto nel segno di questi tre elementi: la terra violata dalla colonizzazione dei “gringos” e martoriata da conflitti politico-sociali, la forza purificatrice e rivelatoria dell’acqua, la sospensione del proprio universo interiore in un eterico non-tempo, che per il cineasta messicano si dispone da qualche parte tra lo sforzo creativo presente e la memoria.
Materia e memoria
Lo sguardo di Alfonso Cuarón in Roma è costantemente in (dis)accordo con il vetro dell’obiettivo cinematografico. La sensazione è che tutta l’opera si giochi su quanto il regista sia disposto, di volta in volta, a farsi piccolo o grande affinché l’avventura sentimentale che descrive possa compiersi. L’abbacinante formato digitale in 65mm abbraccia ogni singolo dettaglio con nettezza, e il bianco e nero iper-definito (Cuarón nel film è anche direttore della fotografia) gioca molto sulla plasticità dei piani e sulla spazialità delineata dalla prodigiosa profondità di campo. Il comparto tecnico quindi, nella sua magnifica presenza, sembra essere totalizzante e rischia, in apparenza, di appiattire la struttura dell’insieme su un discorso puramente meccanico/macchinico. Eppure, alcuni cortocircuiti, gradualmente e consapevolmente inseriti in corso d’opera, fanno percepire assai meno il peso della macchina al lavoro. Oltre alla vicinanza emotiva e scopertamente solidale di Cuarón sia nei confronti del “personaggio” di Cleo (oppressa per questioni di classe, genere, etnia), sia nei riguardi della figura della padrona di casa/madre, Sofia, lasciata sola con i figli dal marito/padre medico che fugge con l’amante, esistono nell’opera elementi meta-discorsivi che danno risalto all’importanza delle anticipazioni, dei segni rivelatori, dei riflessi, dei presagi e di altri elementi “magici” sparsi per tutto il film. Primo tra tutti, e forse il più importante, il figlio più piccolo di Sofia, Pepe: il bambino, evidente doppio infantile del regista messicano, attraverso i suoi racconti di vite precedenti anticipa e preconizza gli eventi che coinvolgeranno Cleo e riconnette, al tempo stesso, i leitmotiv legati agli elementi aerei e acquatici che accompagnano l’opera. «Prima di nascere ero un pilota», afferma con sicurezza Pepe, e la sua dichiarazione entra in risonanza con i continui echi rilanciati dai passaggi degli aerei nei cieli del Messico, che vedremo non solo all’inizio e alla fine del film ma anche, in particolare, nella scena dell’allenamento dei lottatori di arti marziali nello sterminato campo in terra battuta, dove si esibisce il pittoresco Professor Zovek.
Aria
Nel primo campo lungo, dove vediamo l’intera squadra di atleti osservare le imprese del mago, un aereo compare sul lato destro del quadro; in un successivo stacco sull’asse ci avviciniamo al “professore”, inquadrato in figura intera, mentre dietro la sua testa un aereo si dirige verso il lato sinistro del frame; subito dopo il Professor Zovek viene bendato e, mentre si appresta a compiere la sua dimostrazione, la m.d.p., che lo inquadra inizialmente in piano americano, compie un movimento verso l’alto per mostrare un altro aereo. Nell’ultimo campo lungo, leggermente più ravvicinato rispetto al primo, vediamo Zovek in equilibrio mentre tutti gli atleti cercano, senza successo, di imitarlo; l’ultimo aereo compie il suo movimento da sinistra a destra. Un controcampo ci mostra Cleo mentre esegue in perfetto equilibrio l’esercizio dell’atleta, l’unica a riuscirci dell’intero gruppo. Nella complessa architettura della sequenza, che dovrebbe servire a preparare l’incontro tra Cleo e Fermìn, l’uomo che l’ha messa incinta per poi abbandonarla, la tensione s’interrompe in questo istante di quiete assoluta raggiunto da Cleo, in cui il tempo rallenta e si concentra in un unico punto.
L’aspetto interessante di questa scena risiede, quindi, nel suo carattere sospeso, quasi anti-narrativo e, oltre a questo, nella posizione particolare che occupa nella scansione complessiva dell’opera; essa, infatti, arriva a costituire il culmine di tutta una serie di presagi oscuri intorno alla figura di Cleo, e anticipa gli eventi catastrofici che poco dopo andranno a dipanarsi (le proteste che sfociano in violenza, la bambina di Cleo che nasce morta).
Acqua
Il piccolo Pepe interviene ancora, in maniera meno arcana rispetto a quanto detto poc’anzi, nella splendida scena sulla spiaggia che vede Cleo e la famiglia di Sofia fronteggiare un altro pericolo: “Quando ero grande facevo il marinaio, ma poi sono annegato durante una tempesta. Era buio, ci fu un lampo… non sapevo nuotare”. Pepe racconta questa storia mentre i suoi tre fratelli più grandi stanno lottando con le onde del mare; un carrello laterale segue Cleo che, dalla spiaggia, entra in acqua (e la m.d.p. con lei!) per salvare i bambini. Dopo averli tratti in salvo, ecco che un’improvvisa rivelazione scuote l’anima di Cleo: essa realizza di non aver mai desiderato una figlia, di non aver voluto la sua nascita. L’acqua, come anticipato all’inizio, diventa quindi elemento di trasformazione e rimozione, archetipo di purificazione e rinascita.
Etere
In sostanza, in un film visivamente abbacinante e complesso come Roma è paradossalmente la sfera dell’invisibile, o dell’elemento fisico trasfigurato, a muovere l’azione, a scatenare le evoluzioni dei personaggi e a determinare lo spirito dell’operazione di ricostruzione che Cuarón porta avanti tra le pieghe della memoria. In un’opera in cui la pesantezza della messa in scena potrebbe affossare la sua dimensione emotiva, l’incontro tra la prospettiva “bambina” (magica, creativa, legata alla trasfigurazione dei segni) e la rievocazione a distanza dell’adulto cineasta (lo sguardo esterno, il giudizio complessivo rivolto verso se stesso) riesce a creare uno spazio intermedio che va oltre la superficie del mostrato. Tutto questo ci induce a pensare quanto l’universo interiore della protagonista (e di Cuarón stesso, che la mette sempre al centro di tutto) sia sempre spostato altrove, e che all’interno del quadro, in ogni momento presente, vi possano essere solo transizioni, presagi o vertigini improvvise (in questo senso, il ripetuto ricorso a panoramiche circolari può servire sia a disvelare con lentezza lo spazio e i rapporti che lo costituiscono sia, nel caso complementare, a permettere a un elemento esterno di rompere l’equilibrio, come quando vediamo Antonio e la sua amante entrare nell’inquadratura e uscire in corsa verso il lato sinistro del quadro, con una violenza tale da modificare radicalmente sia il flusso del movimento della m.d.p. sia la tensione interna della scena).

Sotto la maggior parte dei punti di vista Roma è un film ineccepibile. Dimostra innanzitutto l’assoluta maestria del suo autore nell’attraversare il cinema, genere dopo genere. Perché indiscutibilmente Alfonso Cuarón fa cinema: dalla concertazione di scene su grande scala all’attenzione per il dettaglio scenografico o emotivo, il regista messicano dispiega un senso della regia magistrale, maneggiando con sapienza tanto la resa narrativa quanto quella estetica delle sue opere. Basterebbe forse la scena del mare in Roma – una sequenza di bellezza accecante, di purezza già classica – per comprovare, senza timore di smentita, che siamo dinnanzi ad un regista di rango superiore. Se metto davanti agli occhi la mia esperienza di cinema, la sua visione e il ragionamento sui suoi fondamentali, questo è quello che penso del film Leone d’Oro 2018. Ma se metto da parte il ragionamento a freddo, chiamiamolo tecnico o accademico, ecco che devo dar atto del mio responso emotivo – quindi del tutto personale, ci mancherebbe altro – alle immagini di Roma e alla costruzione del suo racconto. Mi sono ritrovato, infatti, a cercare una spiegazione alla sorta di indifferenza emotiva che ha caratterizzato la mia visione del film; indifferenza non dovuta ad una qualsivoglia distanza o disinteresse verso le vicende messe in scena, ma più legata alla sensazione di un dettaglio mancante, di un ingranaggio che non ingrana e che ha reso per me aerea, come fluttuante in una dimensione astratta, la bella e travagliata storia della domestica Cleo e la piccola epica borghese di questa famiglia messicana fra i tumulti degli anni Settanta. Realizzo essere un dettaglio di verosimiglianza socio-emotiva quello che mi è mancato, un tassello per me inevitabile e irrinunciabile per credere e cedere fino in fondo alla potenza del film, che invece dal canto suo sembra sottacerlo testardamente. È lo “scontro di classe”, la sua messa fra parentesi e quindi la mancata presa di coscienza dello stesso, ciò che frena la mia adesione sentimentale con Roma.
Cleo è la domestica, dalla fisionomia spiccatamente india, di una famiglia borghese di Città del Messico, bianca e benestante. In una scena del film, mentre Cleo è sul tetto della casa a stendere il bucato, l’occhio della camera si alza sulla linea dell’orizzonte e ci mostra un esercito silenzioso di domestiche, ancora una volta indie, dedite alla stessa mansione sui balconi del quartiere. La rappresentazione è chiara e, in una sola immagine, il film ci fa percepire l’esistenza di un divario sociale preciso: da un lato i bianchi di stirpe europea al comando, dall’altro i discendenti delle popolazioni indigene in posizione subordinata. Ma questa riflessione non viene portata oltre, rimane affidata ad un’immagine muta. È chiave, in questo senso, il rapporto fra Cleo e Sofia, la padrona di casa. Fatti salvi gli alti e bassi delle circostanze quotidiane, la loro relazione non assume mai dei connotati per me intrinsecamente inevitabili: quelli dello scontro sulla base delle rispettive classi. Manca in Sofia il senso di una presa di posizione aprioristica legata alla consapevolezza di una determinata posizione sociale. Manca in Cleo un innato senso di rivalsa, di riscatto, perfino di vendetta sociale. Manca una validazione di verosimiglianza, se non di verità, nel rapporto fra le due donne, il quale si strutturerà lungo le linee ideali dell’incontro, moto cementificato da tragedie umane e sentimentali parallele: Cleo, sedotta e abbandonata, perde il figlio che porta in grembo; Sofia lasciata sola con i figli da un marito che scompare con una donna più giovane. Sono due donne rimaste senza uomini. E che, proprio in virtù di questo, annullano d’emblée i muri sociali che pur le dividerebbero per formare un’alleanza femminile che si dimostri più forte di ogni cosa.
Ma il cuore grande delle donne, la loro comunanza di spirito vista come un’arma così potente da poter addirittura travalicare le barriere sociali e zittire lo scontro, è un sillogismo la cui resa narrativa è per me fortemente problematica. Cuarón guarda alle donne e, in particolare, alle donne immerse in uno specifico contesto storico-sociale attraverso il filtro della quasi-autobiografia, un amarcord schermato dallo sguardo di un bambino, che potrebbe essere di per sé la giustificazione di questa assenza critica. Ma la sguardo di Cuarón, regista adulto, è difficilmente uno sguardo innocente. È uno sguardo che parte da una prospettiva implicita ben precisa – quella del regista messicano uomo, bianco, di classe privilegiata. La celebrazione del coraggio delle donne è cosa buona e giusta, ma rimane in me la sensazione che in Roma diventi anche un’elegante scusa per ignorare specifiche questioni di classe, urgenti e fondamentali dato il contesto, e per ammutolire un profondo senso di colpa che affonda le sue radici nella Storia.
