Drammatico, Recensione

NUOVOMONDO

TRAMA

Il viaggio della speranza di una famiglia siciliana, i Mancuso. In nave, il capofamiglia Salvatore si innamora di una misteriosa americana in cerca di marito…

RECENSIONI

Vincitore del Leone d’Argento “Film Rivelazione”, riconoscimento creato ex nihilo per non lasciare senza premi il film più amato dalla critica internazionale, Nuovomondo ha il pregio di non assomigliare a nessun’altra opera, di non inseguire o ricalcare modelli sebbene i referenti cinematografici siano presenti in filigrana (Visconti in primis, ma anche il Buñuel de Los Olvidados) e, cosa rarissima nella nostra cinematografia, sottende una precisa idea di cinema. Crialese guida il racconto con maestria, evita di adeguarsi con un tocco “pauperistico-lacrimevole” ad un soggetto così abusato. Al contrario, ha il coraggio di trattare la materia narrata con un’ironia non sprezzante: la foto di rito scattata prima della partenza, il test psicoattitudinale a Ellis Island, in cui la candida ingenuità di Salvatore “annulla” le insidie della prova ed annichilisce i presenti con una straordinaria dimostrazione di intelligenza messa al servizio della pratica, del gioco manuale. Con uno stile asciutto segnato da un rigore che quasi mai cede alla spettacolarizzazione degli eventi, il regista di Respiro rischia tutto puntando sul piano medio, evitando di cadere in vacui “tornatorismi”, ma anzi parcellizzando lo spazio, reiterando immagini ora asimmetriche, ora composte seguendo le linee geometriche del profilmico, onde produrre quadri nel quadro mai gratuitamente confezionati, essendo il film incentrato sulla convergenza/scontro tra opposti che trovano in tale alternanza “compositiva” la loro configurazione filmica: la presunta razionalità del “nuovo mondo” vs l’“a-razionalità” delle società arcaiche. Il fatto che la nave non sia mai ripresa in campi lunghi e che la scena potenzialmente più “spettacolare”, quella della tempesta, consista essenzialmente nella collazione di piani ravvicinati dei corpi feriti, accasciati al suolo, dei migranti sono indice di una raggiunta maturità di “sguardo”. La negazione di una visione d’insieme e la proliferazione di dettagli fa il paio con le soluzioni adottate nella descrizione e rappresentazione dei personaggi, che si “dispiegano” nelle immagini senza “spiegarsi” o “essere spiegati” da altri, attraverso i gesti più che le parole. L’evoluzione del rapporto tra la famiglia siciliana e la misteriosa americana passa prevalentemente attraverso lo sguardo. Crialese sottolinea l’importanza del riconoscimento, dell’universalità di quel muto dialogare, addirittura “rompendo” l’equilibrio e la “compostezza” del racconto con segmenti isolati di struggente “verità” (Lucy e Donna Fortunata, sedute sul letto, in silenzio, un fugace scambio di sguardi, la musica che sottolinea l’avvenuta, mutua “comprensione”).
Immagini e racconti dalla e sull’America che alimentano sogni di gloria ed invitano al viaggio: galline e ortaggi giganteschi, fiumi di latte, alberi da cui cadono monete. Era sicuramente rischioso ricorrere al simbolo, alla metafora. Proprio perché non posticce o calate dall’alto, ma mediate da un personaggio (di fatto sono immagini mentali del protagonista, letteralmente “sogni ad occhi aperti” condizionati dai racconti e dai fotomontaggi), le parentesi simbolico-oniriche s’innestano perfettamente nel racconto “realistico”, contribuendo ad avvolgere il tutto in una densa aurea mitica, arcana, a-temporale: il viaggio verso l’America diviene così un tragitto simbolico verso un Paradiso ideale, utopico, una sorta di quasi biblica mitopoiesi al di fuori del tempo e della Storia. Il momento fatidico del distacco dalla terra madre è reso con una delle inquadrature più potenti del cinema italiano recente: la nave che si allontana lentamente dal porto, come ad aprire una ferita, una lacerazione intima non rimarginabile. E’ più di un semplice racconto di emigranti, è forse più legato al tema universale della perdita e dell’abbandono, dell’allontanamento dal ventre materno (poi suggellato dallo straziante addio alla madre nel finale) verso mete “(in)immaginabili” ed invisibili. Infatti, come la nebbia milanese secondo Totò, l’America c’è, ma non si vede…

La sequenza iniziale di Nuovomondo, con Salvatore e suo figlio Angelo che si arrampicano su una montagna stringendo un sasso tra i denti, racchiude sinteticamente pregi e limiti dell’ultimo film di Emanuele Crialese: una messa in scena potente, suggestiva, letteralmente visionaria al servizio di una scrittura artificiosa, schematica, sguaiatamente allegorica. Complicata da un montaggio alternato col cerimoniale esorcistico praticato dall’anziana Fortunata sulla giovane Rita, l’arrampicata possiede un indubbio fascino visivo e un’inequivocabile forza espressiva, ma al tempo stesso è afflitta da un simbolismo e da una programmaticità altrettanto innegabili. Il desiderio di elevazione proprio di Salvatore (un credibile Vincenzo Amato) è simboleggiato sia dall’ascesa che dalla deposizione del sasso ai piedi della croce; la totale dedizione del figlio Angelo (l’ottimo Francesco Casisa) è rappresentata dalla docilità con la quale segue il padre nel duro percorso verso la cima della montagna; la selvatica imprevedibilità del figlio minore Pietro (Filippo Pupillo) è esemplificata dalla bizzarra imboscata con cui importuna scherzosamente le spaurite Rita e Rosa (Federica De Cola e Isabella Ragonese) e, infine, la scontrosa arcaicità di Donna Fortunata (una persuasiva Aurora Quattrocchi) è proclamata dalla sua diffidenza per le parole scritte, dalla sua tradizionale attività di “medica” e dalla sua folle paura di abbandonare la terra (Donna Fortunata è tanto terrestre e chiusa quanto Salvatore è aereo e aperto: anche in questa opposizione è impossibile non percepire un’eccessiva schematicità). Tutto fa simbolo, a ben vedere, non esclusi i nomi: all’asse celeste Salvatore/Angelo risponde quello tellurico Fortunata/Pietro. Alla potenza delle immagini, insomma, non fa riscontro una caratterizzazione dei personaggi e un controllo della materia simbolica altrettanto convincenti, Nuovomondo precipitando spesso e volentieri nella “retorica dell’umiliazione” e nella vieta riproposizione di un’epopea migratoria costellata di episodi equamente distribuiti tra il degradante, il comico, il tragico, il dignitoso e il commovente. Un diagramma emotivo di assoluta convenzionalità. Scandito in tre parti dalla durata piuttosto disomogenea (la seconda sensibilmente più lunga delle altre), è tuttavia nella differente concezione delle immagini che Nuovomondo presenta il maggior grado di interesse: Crialese riserva infatti un trattamento visivo peculiare ad ogni sezione, elaborando un linguaggio filmico di notevole complessità e denotando un’attenzione alla dimensione stilistica tutt’altro che irrilevante. La prima parte, dedicata alla decisione di intraprendere il viaggio e ai preparativi prima della partenza, è infatti costruita su inquadrature ampie e spaziose, nelle quali l’orizzontalità della composizione è interrotta dalla massiccia verticalità delle figure, a suggerire una relazione arcaica e immutabile tra gli uomini e lo spazio. Il secondo segmento - l’imbarco, il viaggio in nave e le sue traversie - è invece contraddistinto da immagini più anguste e affollate (fatta eccezione per le parentesi sentimentali sul ponte): aderendo ai volti e ai corpi dei viaggiatori della terza classe, la macchina a mano ne condivide tumultuosamente l’angoscia, lo smarrimento e, soprattutto, la forzata promiscuità. Qualche sbavatura nell’uso delle soggettive e dei ralenti – nel colloquio di sguardi tra Salvatore e Lucy (una Charlotte Gainsbourg delicatamente spaesata) e nella sequenza della tempesta – non compromette la sostanziale tenuta della seconda sezione, messa tuttavia a dura prova dal dialogo “prematrimoniale” immerso nella nebbia. La terza e ultima parte, riservata all’arrivo ad Ellis Island e alle procedure di selezione degli aspiranti cittadini del Nuovo Mondo, vede infine la prevalenza di composizioni regolari e geometrizzanti che iscrivono nettamente i corpi nello spazio, traducendo visivamente la violenta collisione tra l’ingenua speranza degli immigrati e la rigida normatività delle istituzioni statunitensi. Anche in questo caso risulta evidente quanto le soluzioni di messa in scena dipendano da una sceneggiatura eccessivamente schematica e didascalica (talvolta addirittura caricaturale: i test di intelligenza sono un colpo sciaguratamente basso), eppure l’abilità con la quale Crialese riesce a trasformare in cinema le situazioni narrative e a modulare un discorso stilistico articolato lo mette definitivamente al riparo da critiche di eccessiva severità. Fotografia determinante di Agnès Godard.

Nuovomondo ha il fascino che hanno i film ispirati. Racconta soprattutto per immagini e suoni avvalendosi di una bellissima fotografia che immortala una Sicilia spigolosa, un viaggio claustrofobico e nuvoloso, un arrivo inscatolato. Crialese trova la propria personale strada narrativa alternando sorprendentemente realismo e scene oniriche: il mondo popolare fatto di dialetti, superstizioni e riti, terra e pietra; l'impresa del viaggio verso l'America nella sua durezza materiale, nei suoi passaggi brutali; e la speranza visionaria riposta nel nuovo mondo. In questo contesto i sentimenti hanno uno sviluppo sotterraneo e inarrestabile e le risate arrivano naturalissime, mai ruffiane. Il regista rifiuta tanto l’epica quanto la retorica compassionevole e lacrimosa e riesce a trovare una voce propria distinta da tutte le altre che si sono finora accostate al visitatissimo tema dell’emigrazione. Personale e bella anche la colonna sonora, con la scelta inattesa di alcuni brani americani di Nina Simone. Nel film di Crialese tutto tende verso un’America mai mostrata, neppure sbirciata, che esiste solo nelle foto fantasiose che prefigurano cuccagna e beni fuori misura e in quel bagno nel latte a cui gli emigranti sembrano sapersi abituare con entusiasmo. Perché l’America deve restare solo sognata, immaginata, sperata e temuta, non ancora conosciuta. Allo stesso modo la pellicola sceglie di lasciare molto non detto e non spiegato, porte aperte allo spettatore come ai protagonisti, a stimolare i pensieri di tutti e due. Tanto più che i personaggi di Nuovomondo, vivissimi ritratti tracciati con poco (una carezza d’addio, uno sguardo furtivo, una frase spontanea), vivono di intensissima vita propria già proiettata oltre la pellicola. Nuovomondo è un cinema in grande fatto di piccole cose, senza barricate tra i diversi registri e toni. Un film che usa la specificità culturale non come limite ma come mondo ricco da esplorare e di grande capacità comunicativa.

“Oh Sinnerman where you gonna run to”
Nina Simone

Potremmo di buon grado considerare Nuovomondo come una sorta di prosecuzione (o prolungamento) del discorso inaugurato da Respiro su una contrapposizione forte tra tradizione e post-modernità, tra dimensione arcaico-aurorale preservante e scenari di nuove apocalissi della contemporaneità, soprattutto nell’analisi dello scarto che li distanzia, nel territorio pericolosamente attraversabile, come un abisso oceanico, che tende a separarne la continuità semantica. Ci sembra preferibile accogliere una lettura sub specie aeternitatis in grado di far sprigionare l’energheia simbolica contenuta nelle frequenti metafore del film piuttosto che indagare storicamente e contestualmente l’episodio, comunque estremamente significativo, degli emigranti, un fenomeno che dall’altra sponda dell’Oceano fu sprezzantemente collegato alla questione degli “indesiderabili”. Nuovomondo è un po’ l’annuncio della nascita di una tragedia o quantomeno di un evento socio-antropologicamente traumatico configurandosi come narrazione tutto sommato lineare del passaggio dal mito alla storia. La sequenza del distacco fisico tra la nave che salpa e la fissità inesorabile della banchina prefigura la cesura netta tra due mondi, il popolo dei migranti che dice addio alla terraferma si sta allontanando in maniera irreversibile da un’idea arcaica di mondo contemplando più o meno consapevolmente una forbice concettuale che implica il lascito e la responsabilità; anche se in realtà è proprio su quella soglia portuale che si stanno verificando i sintomi inequivocabili di una frattura epocale quando meschine pratiche di speculazione si sovrappongono ai sogni di esistenze miserande. L’incipit, disegnato da sincere suggestioni pasoliniano-viscontiane e che riecheggia tanto cinema dei Taviani (il realismo della lingua, la matericità dei luoghi), richiama una prossimità geografica con il senso di ancestralità evidenziato da Respiro e il suo “paesaggio con centauri”, delimitando un territorio intriso di mitologia, una zona - la Sicilia che è ancora, e sempre, quella dei siculi e dei sicani - abitata dal sacro nella quale lo spazio e il tempo sono misurati in funzione di un’organizzazione rituale della vita (il rito ordalico dell’ascesa al monte e quello apotropaico dello “scantu”) in un rapporto simbiotico con la natura. L’irruzione di un tempo altro, di un tempo “a venire”, nuovo, evocato da un’alterità, appunto, testimoniata dai fotomontaggi dagherrotipici provenienti da un altrove, scatena l’incontrollabile elaborazione dell’immaginario preannunciando nel divenire livido dei cieli la fine di un mondo. Crialese sottolinea la rilevanza di questa capacità d’elaborazione offrendo un corredum visionario legando il tessuto diegetico a riuscite formule di matrice surrealista, espediente che condiziona felicemente e fecondamente la cifra espressiva del testo filmico nel suo progressivo gioco d’innesti narrativi scanditi tra mythos e logos, nel quale l’elemento decisivo è determinato dall’appartenenza di quello specifico modo di elaborare a una cultura mitica, originaria, a una dimensione sacrale. Il Nuovomondo diviene quindi l’ignoto dipinto nelle fantasticherie immaginifiche indotte di individui che abitano, condividendolo, lo stesso perimetro linguistico-simbolico e che non possono pensare al “nuovo” se non nelle forme di un immaginario condiviso (una terra lontana chissà quanto nella quale tutto si ipertrofizza). In fin dei conti non è ancora scomparsa nel nostro longevo immaginario, appartenuto alle civiltà del vecchio mondo durante le rotte colombiane e prima ancora nei sogni di esotismo dei popoli nell’epoca delle grandi navigazioni, l’immagine di un’America come una specie di paese di cuccagna (la terra dell’abbondanza).
Il transito da mythos a logos la cui problematicità è descritta dalle scorribande visive sui volti solcati da espressioni di sgomento e speranza e dai canti con valenza, per così dire, psicoterapeutica, nella traversata oceanica, si risolve in un rifiuto o, meglio, in un non riconoscimento di un’idea di ragione supposta superiore, positivista, legata a un presunto principio di progresso, la quale regola l’ingresso dei “senza nome” (senza nomos) subordinandone il disarmo intellettivo (le prove psico-attitudinali) a un catalogo di norme parametrate su aberranti assunti scientisti. Di qui la recisa scelta espressamente politica di Crialese di permanere in un amnios mitico, a-storico, (tra)sognato, anche se questo può voler significare la naufraga natanza nell’indefinito del suo mare lattiginoso senza possibilità di approdi sicuri. Come politica del resto è la scelta di soffermarsi ad analizzare la condizione della donna nella contrapposizione delle due figure femminili principali, Fortunata Mancuso, la “medica”, molto vicina al mito di Medea, che richiama il valore della memoria e della tradizione (tràdita e tradìta), che sta accompagnando una nuova identità dell’umano e Lucy, la lady vittoriana che sta affannosamente adeguando, nel suo simbolico sembiante di eterea intangibilità, il vecchio corso delle dinamiche storiche alle magnifiche sorti e progressive. Il rifiuto dunque di un ingresso nella Storia (in qualsiasi Storia), di varcare la Golden Door a quelle condizioni di becero razionalismo, radice e fondamento di violenza ideologica. Un’inattualità straordinariamente attuale pur nelle concessioni pamphletistiche di una intentio didascalica che tende a soffocare le forme irretendone talvolta l’incanto visivo.