NOT(T)E SULLA TRILOGIA – IL CORPO, LA MORTE, LA METAFORA

 Che il cinema horror fin dai suoi epocali albori espressionisti sia stato un’eminente espressione artistica per dire altro (o per dire l’“altro”), ferma restando l’esistenza di un filone orrorifico più giocosamente “disinteressato” che va dall’exploitationdi un William Castle a La casa raimiana alla sequela ininterrotta dei cosiddetti teen-horror degli anni ’90 e oltre dedita al mero intrattenimento, è cosa irreversibilmente acquisita. Il dato interessante dell’horror è vedere, di volta in volta, come questo “altro” è stato pensato, che tipo di relazione ha instaurato con l’ipotetico “noi”, quali sono i meccanismi che hanno regolato questo genere di rapporto e quali modi della rappresentazione si sono escogitati per raccontarlo attraverso una narrazione per immagini.Nel 1968 (anno decisamente significativo in fatto di epocalità) appaiono sugli schermi di tutto il mondo due pellicole che costringeranno i cartografi del genere horror a ridefinire i confini di ogni mappatura fino ad allora disponibile: Rosemary’s Baby di Roman Polansky e Night of the Living Dead di George A. Romero. Da una parte un film hollywoodiano di un autore universalmente riconosciuto e apprezzato, dall’altra un b-movie casereccio di un giovane arrabbiato della periferia cinematografica statunitense, da una parte un film che tematizza la paranoia di una civiltà indagando le paure e le angosce che si annidano nella psiche quando si parla di anima in termini religiosi, dall’altra un racconto visivamente allucinato che innesca un discorso assai lucido sulla paura (della dissoluzione) del corpo (inteso in tutte le sue accezioni).

Concentrandosi per esigenze tematiche sull’opera di Romero che ha poi dato luogo ad altri tre capitoli sui morti viventi (l’ultimo di imminente uscita, intitolato Land of the Dead) va subito rilevato che il cineasta newyorchese, pittsburghiano d’adozione, consegnandoci la sua visione necrologica del revenant, nonostante la sua dichiarata cinefilia votata al grande cinema horror delle origini e degli anni ’50 (vedi Creepshow), non si inserisce nella solita tradizione cinematografica mistico-necromantica percorsa dai suoi autorevoli predecessori Halperin, Tourneur, Robson etc., preferendo scaraventarci brutalmente in medias res piuttosto che giocare sul senso del mistero. Il factum è più importante della causa che l’ha prodotto, la spiegazione sul ritorno in vita dei morti arriva tardi e non ha rilevanza diegetica (anche se è una motivazione che mostra indirettamente la passione di Romero e il co-sceneggiatore John A. Russo per la fantascienza americana dei fifties). In tutta la trilogia i living deadromeriani hanno poco o nulla a che fare con gli zombi delle superstizioni voodoo haitiane (non fosse per alcune note folkloriche inserite nel secondo episodio del trittico sui morti viventi: le frasi alquanto sibilline pronunciate dal prete tra cui quella più famosa: “Quando i morti cominciano a camminare bisogna smettere di uccidere […] Ora voisiete più forti di noi, ma presto loro saranno più forti di voi”.). Il titolo italiano di Dawn of the DeadZombi, che fece peraltro la fortuna del film e che generò pure un folgorante apocrifo fulciano (Zombi 2, triste motivo di querelle tra i due registi romani del fantastico), fu ideato da Dario Argento, il quale produsse e rimontò (con grande efficacia ritmica epurandola delle sue parti più prolisse e “difficoltose”) la pellicola di Romero per la versione italica. Strano ma vero, e con notevole effetto spiazzante: si parla di morte e non vengono minimamente sfiorate le questioni preter-naturali, ovvero metafisiche, religiose etc. che da sempre hanno accompagnato uno degli argomenti più cruciali della storia del pensiero umano, se non per essere ribaltate e/o nullificate (l’appello di uno scienziato in Dawn of the Dead è proprio quello di sbarazzarsi senza troppi ritualismi delle putrescenti carcasse cadaveriche che infestano le città e i villaggi, invitando la popolazione ad avere un approccio biologico-scientifico, e dunque avalutativo in senso weberiano, al fenomeno).

Il viaggio (poiché di questo effettivamente si tratta) come percorso (filmico) attraverso il territorio semiotico e simbolico della morte che ritorna inizia al crepuscolo (The Twilight Zone!) in prossimità di un sentiero di campagna, ripreso nella desolata e inquieta fissità della m.d.p., che arrampicandosi su un promontorio si apre su una distesa riconoscibilmente cimiteriale in cui campeggia sbiadita e sventolante una bandiera americana. L’umanità (Johnnie e Barbara) traghettatavi mediante un automobile (il simbolo più eminente della nuova mitologia post-moderna) giunge al suo punto di non ritorno, se non come trasformazione significante. L’incipit (tragoedia) ci informa e nello stesso tempo ci folgora sulle manifeste intenzioni romeriane di costruire un discorso metaforico partendo dal concetto di morte.

Se la morte, come si è detto, è affrontata da Romero in maniera a-filosofica (il ché non significa che nel dis-currere filmico non dia luogo a derive di portata filosofica, anzi), come disfacimento, l’interrogativo (ris)posto da Night of the Living Dead e dall’intera trilogia è “disfacimento di che cosa?”. L’opus romeriano incentrato sui morti viventi si annuncia nei termini di una mise en scène della morte al lavoro come disfacimento del corpo, inteso nel suo plesso più debordantemente polisemico. Il vigore allegorico dei corpi in totale decadimento che invadono terrificamente la scena come metafora del disfacimento è garantito dall’orrore della rappresentazione: la lividezza e la glacialità delle atmosfere che avvolgono le allucinate dinamiche tra i vivi e i morti, ma anche (e forse soprattutto) solo tra i vivi, contribuiscono a creare quella dimensione psicologica di autentica angoscia che costituisce poi l’elemento precipuo di cui Romero si serve per decostruire l’abituale senso di paura fondato sui meccanismi della suspense dell’horror tradizionale, oltrepassando dunque i confini della pura e semplice condizione fobica. La morte oscura, terribile e strisciante che pervade lo schermo come un quid dolorosamente palpabile, oltre a un inevitabile, psicanalitico, ritorno (ri)vendicativo di una rimozione sociale, è la morte biologica, si potrebbe dire, di un corpo che sta conoscendo una fase di metamorfosi in chiave sociologica e che sta di conseguenza trasvalutando in maniera violenta i suoi valori. Nuove spinte anarco-insurrezionaliste, fermenti di istanze rivoluzionarie o semplicemente giovani idee di mutamento sociale stanno assediando il Fort Apache reazionario di un’America in stato di evidente confusione da anacronismo (il tema dell’assedio, caro in seguito ad autori del calibro di Carpenter, rimane una ferrea costante della trilogia) . La nazione è un corpo nuovo che vuole energicamente, brutalmente, orrendamente massacrare il vecchio nutrendosi e pascendosi della sua viva carne e del suo sangue. Il tabù antropofagico si dissolve finalmente in un tripudio prolungato e protervo di pasti nudi: i morti cercano i vivi (?), i figli divorano i padri (e le madri) nella terrificante eloquenza delle immagini in soggettiva (alternate da inquadrature più sghembe e angolate a testimonianza del fatto che Romero è lì, come tutti noi, vittime e carnefici contemporaneamente, ad assistere alla apocalisse di carne che si va compiendo. “Gloria e vita alla nuova carne”annuncerà Cronenberg, illustre figlio romeriano, più di un decennio dopo), i fratelli le sorelle, mentre l’orgoglio nero assurge a protagonista anche nel (e nonostante il) tragico vuoto dell’insensatezza bianca del finale di La notte dei morti viventi.

Nessuna metafisica della luce può esserci ed ergersi a salvifico rischiaramento nelle tenebre di un’interminabile notte della (s)ragione, dal tramonto all’alba (Dawn of the Dead), dalla notte al giorno (Day of the Dead) prosegue il programmatico attacco romeriano al corpo della società americana (e occidentale lato sensu), dopo averlo portato al suo cuore (la famiglia). Cambiano le estetiche avventurandosi in inedite decadi di sangue e lo splatter saviniano prende il posto del gore di matrice gordonlewisiana ma continua la poetica dei morti viventi tradotta dall’inesorabile minaccia testuale che si configura sempre più come teatralizzazione del corpo disgregato e decomposto nello spettacolo della morte. La delimitazione dello spazio si restringe divenendo luogo claustrofobico del movimento impossibile e dell’azione negata: il centro commerciale (o Mall, nell’accezione anglosassone) e la base militare sotterranea. La metaforizzazione (de)flagrante di secondo grado (il cinema come luogo in cui una morte è già sempre avvenuta) si rifrange nella specularità dei cristalli delle vetrine imbrattati di emoglobinica euforia dello smembramento del centro commerciale, altro grande totem prefigurativo dell’era post-moderna. L’orgia cannibalica che si va consumando nel suo interno, con i suoi mirabolanti totali frantumati efficacemente dal richiamo “individualistico” dei primi piani, è lo stesso corpus sociale improntato ai dettami del capitalismo che fa scempio di sé producendosi in un delirio collettivo di fagocitazione della merce. Le innumerevoli superfici speculari presenti nel centro commerciale che separano ed uniscono i vivi e i morti in un caotico e avviluppante unicum indistinctum generano un perverso e anomico gioco labirintico che produce un effetto di indifferenziazione, dal quale chi entra (come la banda di motorbikers) non ne esce più (vivo) (?).

Nel terzo inconclusivo capitolo della saga assistiamo poi a un problematico ribaltamento topologico nel quale i morti oramai dilagano nella superficie del pianeta come nel più agghiacciante degli scenari mathesoniani (dove si celebra peraltro definitivamente la dipartita di ogni sistema comunicativo mediatico, l’informazione mancata nei primi episodi con la tv malfunzionante di Night of the Living Dead e impazzita e infarcita di personaggi quanto mai bizzarri che popolano le sue trasmissioni di Zombi, risulta irrimediabilmente smarrita nella sua assenza in Il giorno dei morti viventi), e i sopravvissuti abitano le zone infere e sotterranee di una vecchia base militare in cui si tenta in vano di contrastare la disfatta del genere umano e l’ineluttabile destino di cancellazione delle tracce (la cultura, i saperi etc.) attraverso la memoria (la figura dell’antropologa) e di rieducare pavlovianamente la nuova inattesa specie per una soluzione di pacifica convivenza (il Mad Doctor Logan, chiamato non senza motivo Dr. Frankenstein e la creatura zombesca, golemiana, maryshelliana (etc. etc.) Bub). Il morto è ancora l’“altro”, ma l’alterità si è tramutata nel frattempo nel nemico invasore da fronteggiare ed eliminare (corsi e ricorsi storici si direbbe, in virtù dei quali Romero si produce in un impasto fantapolitico di reaganismo belligerante, anticipazione più profeticamente evidente del guerrafondismo attuato della progenie bushana, e di rinnovata caccia alle streghe comuniste di maccartiana memoria, e si potrebbe riattualizzare ulteriormente il contesto diegetico).Fortunatamente la trilogia romeriana (anzi tetralogia, poiché il viaggio, come accennato, è ben lungi dall’aver trovato una conclusione) è molto più di un’asettica (benché nitidissima) radiografia che analizza il punto (o meglio più punti) di crisi sociologico di una nazione e del relativo sfaldamento nella struttura del tessuto etico-politico, e anche molto meno. Fortunatamente è a partire dall’emergenza di un dolore e di un’angoscia esistenziali che appartengono al suo sguardo e ai suoi modi di rappresentazione che si costruisce un dispositivo di immagini in grado di esprimere visivamente tutto il suo personale nichilismo e che dunque ci consente di essere immersi nel piacere libidico/scopico del testo cinematografico piuttosto che nell’aridità delle secche di un trattatello di sociologia.