TRAMA
Il 10 ottobre 1974 un ordigno dell’Ira esplode in un pub di Guilford (Londra); per l’attentato vengono arrestati Gerry Conlon, suo padre Giuseppe, Paul Hill e membri della sua famiglia. Dopo 15 anni di reclusione sarà provata la loro innocenza; tratto dal romanzo autobiografico Il prezzo dell’innocenza di Gerry Conlon.
RECENSIONI
Jim Sheridan è uno strano animale: irlandese fino all’osso, amante della pura messinscena ma sempre pronto a fare la voce grossa, puntualmente rischia tutto con tematiche sul filo della retorica (cfr In America). E vince: all’occasione abbiamo il film della sua terra, un’opera-fiume sull’annosa questione irlandese che pungola la platea con altissimo potenziale sociale. Mica facile: imbrigliare la materia rovente della storia vera, mantenere polso fermo anche nelle parentesi più emotive – nonostante le musiche di Bono -, non ringhiare sullo spettatore ma tratteggiare i contorni della metafora, senza impigliarsi nel fuorviante cliché celebrativo. Per la verità, nelle lunghe sequenze di comune prigionia tra padre e figlio un pugno di dialoghi appaiono scritti squisitamente per la platea, malcelando l’intento didattico con il sapore sgradevole dell’istruttoria (Quando uscirai di qui devi riabilitare il mio nome); ma è un difetto che non prende il sopravvento né imbriglia una pellicola densa e compiuta, che per lunghi tratti azzecca l’equilibrio anche negli snodi eclatanti (una splendida sequenza iniziale, fuoco alle polveri) e con tocco sintetico costruisce un vibrante spaccato d’ambiente, senza lesinare in crudeltà narrativa (gli interrogatori dei sospettati) attraverso il filtro essenziale della vita vera. Day-Lewis, portento sempre poco sfruttato, conosce un’intensità disarmante che sovrasta il resto del cast, la Thompson rimane vagamente ingabbiata nella macchietta.
Dal libro autobiografico di Gerry Conion, detenuto ingiustamente per quindici anni: un racconto potente, paradossale per quanto vero, commovente, rabbioso. Sheridan sa come toccare le corde emotive con sapienti sceneggiatura (da non sottovalutare l’apporto di Terry George) e messinscena, e si riunisce all’interprete del suo fortunato esordio, Il Mio Piede Sinistro, un Daniel Day-Lewis che, spiace dirlo, anche per come è diretto, costituisce l’anello debole di un’opera altrimenti perfetta, fatta la tara di certe enfasi che, pur sacrosante, ammiccano troppo facilmente o poggiano su meccanismi sin troppo classici (le due figure paterne in antitesi, Giuseppe e il membro dell’Ira, ad esempio). Day-Lewis non convince nel ruolo del giovinastro immaturo, impulsivo ed esuberante e Sheridan, dal canto suo, insiste troppo nel raffigurarlo come uno stupido per esaltare l’immagine del saggio padre, un eccellente Pete Postlethwaite. Lo sfondo storico-politico è cocente e denuncia un sistema ingiusto: gli attacchi terroristici dell’Ira, le rivolte a Belfast, le leggi speciali del governo inglese, con tutto ciò che il senso di vendetta, giustizia e panico di uno stato si porta appresso. Su di esso si innesta il percorso di maturazione di un giovane e del suo legame con la figura paterna, forte nonostante l’incomunicabilità generazionale. La progressione drammaturgica toglie spesso il fiato, regalando passaggi di pathos che colpiscono al cuore, indignano, danno catarsi, infuriano: Gerry che scimmiotta un virtuoso della chitarra e parte la rabbiosa chitarra del Jimi Hendrix di ‘Voodoo chile’ mentre dilaga la guerriglia urbana; lo strazio delle torture; la funerea fiaccolata in carcere; l’incredulità del primo processo e l’amara purificazione dell’ultimo. La title-track è di Bono, mentre in carcere proiettano Il Padrino. Doloroso, intenso.