TRAMA
In un mondo dove gli elementi aria, acqua, terra e fuoco possono essere controllati da individui noti come dominatori, vi sono quattro partizioni geografiche, ognuna delle quali corrisponde ad uno dei quattro elementi. La Nazione del Fuoco dichiara guerra alle altre per cercare di prenderne il controllo e il conflitto si protrae nel tempo. L’unica speranza di porre fine a questa guerra è riposta in un giovane ragazzo di nome Aang, l’unico superstite della stirpe dei Nomadi dell’Aria, è l’Avatar: l’Avatar, un essere umano che racchiude in sé l’essenza del cosmo, con l’abilità di controllare tutti e quattro gli elementi.
RECENSIONI
Sia chiaro: il film che rischia di affossare la carriera di M. Night Shyamalan (semi-flop al botteghino, critiche dileggianti in ogni dove) è opera che pare poco adeguata a qualsiasi target, incapace di ammaliare (con escamotage narrativi che si direbbero elementari) il pubblico infantile, inadatta – per manifesta stilizzazione psicologica delle figurine in gioco – di interessare l'adulto. Difetta in coesione (soprattutto nella gestione nell'economia narrativa dei personaggi secondari); del genere fantasy soffoca – suo malgrado - il respiro epico. Delle opere di Shyamalan non possiede il raffinato incedere psicologico di matrice europea dimostrato sino al capo d'opera The village, di Lady in the water e E venne il giorno non ha la sprezzante volontà di mettere in primo piano il discorso poetico, di farne concrezione simbolica quasi trasparente, noncurante del ridicolo: L'ultimo dominatore dell'aria è, semplicemente, una fiaba aggiornata all'epoca delle trilogie fantasy, Mito ai tempi alla globalizzazione culturale, blockbuster d'ordinanza spettacolare e chiusura del cerchio di una poetica che si è voluta via via parabola pop, intrattenimento di massa e insieme forum in cui discorrere (a suon di stilizzazioni) del presente, gli ultimi tre film a Così anche questa rivisitazione pedissequa quanto poco efficace della serie d'animazione Avatar – La leggenda di Aang è costruita sul reticolo di ossessioni che struttura il cinema di Shyamalan, reticolo che si dirama dal concetto chiave di Responsabilità. Ovvero (per dirla con Zizek) quell' Accettazione del proprio ruolo simbolico che l'uomo contemporaneo non può fare a meno di annichilire nella derisione, in quella che David Foster Wallace, con lucidità incomparabile, contestualizza così: l'ironia, l'imperturbabilità pokeristica, la paura del ridicolo contraddistinguono tutte le caratteristiche della cultura americana contemporanea che abbiano un rapporto significativo con quella televisione la cui bizzarra manina tiene la mia generazione per la gola. Che la si chiami post-modernità, Fine della Storia, contemporaneità ciò che è evidente, soprattutto nelle rappresentazioni pop che fagocitiamo, è l'impossibilità della serietà, l'incapacità di annientare la meta-riflessione, il cancro del distacco ironico. (E invece l'assenza di ironia è imputabile come difetto solo se si vuole imporre all'opera la proria misura, una propria strutturale necessità, il marchio di prodotto integrato perfettamente nel sistema). Così, se la guerra di Shyamalan contro la dissacrazione umoristica è stata combattuta simbolicamente in E venne il giorno, lotta tra istanze poetiche enfatizzate e relativa demistificazione, in L'ultimo dominatore dell'aria si torna alla serietà (è un film per bambini, bellezza): il passaggio di consegne è evidente, se il protagonista di E venne il giorno era costretto da forze superiori a ricostituire la propria famiglia, qui Aang rinuncia al proprio ruolo per costituire un nucleo familiare, negandosi in prima istanza alle proprie responsabilità. Per poi riprendersele, in un'atmosfera che non può che essere solenne, rigettando l'ironia se non in piccoli dettagli.
Shyamalan distilla sui suoi personaggi senza spessore questioni come la dialettica tra Comunità e Individuo, il Sacrificio per una più alta causa, esamina come il Male può costringere al Male, come i dominatori siano portati ad eradicare le peculiarità dei dominati per ammansirli al loro volere, questioni universali che non difficilmente trovano aderenze attuali, in quel simbolismo immediato che è a fondamenta della sua idea di cinema. Questioni che, da buon cattolico, risolve in maniera anche ambigua, opinabile o grossolana. Ma questioni che fanno parte di una realtà che il nichilismo dell'ironia nega comodamente, nella costruzione di un reale anestetizzato che non è mai verità. Shyamalan rimane uno degli autori contemporanei più stimolanti da un punto di vista speculativo, promuove cinema di massa pensante e controtendenza. L'ultimo dominatore dell'aria è, a oggi, la sua opera meno riuscita: oltre ai citati problemi di coesione e conseguente confusione, soffre la scelta di girare le scene d'azione preferendo, pur coraggiosamente, il respiro del long take alla frenesia del montaggio ipercinetico. Il finale annuncia ulteriori sviluppi che potrebbero rimanere inappagati. 3D posticcio inessenziale.

Spielberg è sempre stato il punto di riferimento di Shyamalan: esaurita la vena thriller-paranormale (ma la parentesi favola-dark di Lady in the Water si avvicina al mood di quest’opera), l’autore tenta un rilancio con la trasposizione dell’anime (3 stagioni, dal 2005) “Avatar, la leggenda di Aang”, fantasy per ragazzi amato dalla figlia, di per sé già derivativo. Su di uno Shangri-la retto sui quattro elementi e governato dagli spiriti non può, infatti, arrogarsi il diritto di avere l’esclusiva, e Final Fantasy aveva già detto tutto e meglio. In realtà, l’anime è stato apprezzato per il mix di arti marziali e filosofia orientale ma Shyamalan, fedele ad un difetto onnipresente nelle sue ultime opere, rende l’edificante schema sotteso lapalissiano ed infantile. Mentre rappresenta il Regno del fuoco con la (sua) etnia indiana, esseri umani senza più dei e con l’arroganza della tecnologia che crede di aver sconfitto la Natura, dice e urla tutto subito: per fortuna, l’impianto meraviglioso distrae, fra scenografie di Phillip Messina e suadenti effetti visivi (il 3D, invece, è posticcio, gonfiato in post-produzione). Purtroppo, anche la messinscena del regista, oltre alla (sua) sceneggiatura frettolosa e a rotta di collo (una scia di superficiali segni senz’anima), è carente: basti l’imbarazzante scena in cui avatar e compagni convincono il popolo ad insorgere, con combattimenti che, anziché essere epici ed esaltanti, si riducono ad una scaramuccia parrocchiale (ricorda Le Cronache di Narnia), dove il regista non sa montare l’azione né imbastire coreografie potenti. Il film si riprende nell’assedio finale al Regno dell’acqua perché, patetismi a parte, la scena in cui l’uomo uccide il Dio lascia il segno e perché, finalmente, Shyamalan toglie la parola alle sue figurine di cartone e lascia parlare le musiche di James Newton-Howard, alzando un muro d’acqua, monito agli usurpatori dell’equilibrio spirituale: ci sono pathos e meraviglia, ed il dolore di un Re suo malgrado, gravato dal peso del proprio potere, dal senso di colpa di una scelta fatta un secolo prima, che ha condannato sé e l’uomo alla violenza. L’epilogo prevede seguiti (due, da trilogia) che, visto il flop, arduamente ci saranno.
