Noir

L’ONORE DELLE ARMI

Titolo OriginaleLe deuxième souffle
NazioneFrancia
Anno Produzione2007
Genere
Durata155'
Sceneggiatura
Tratto dadal romanzo omonimo di José Giovanni
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Evaso dal carcere di Castres, il famigerato Gustave Minda fa rotta verso Parigi e piomba a casa di Manouche, appena reduce da un attentato nel suo locale e giusto sotto il tiro di due sgherri di Jo Ricci. Accoppati i molesti visitatori con l’aiuto del fido Alban e della compagna ritrovata, Gu si rintana in un piccolo appartamento parigino e pianifica la vendetta ai danni dell’untuoso Jo. Tuttavia la spedizione punitiva non va in porto perché all’ultimo momento, forse avvertendo il pericolo di un’imboscata, Gu non se la sente. Nel frattempo Venture Ricci, fratello “regolare” di Jo, sta progettando un colpo a un furgone portavalori stracolmo di lingotti d’oro e ha bisogno di un quarto uomo per neutralizzare la scorta armata. Dapprima la scelta ricade su Orloff, truand solitario dalla reputazione specchiata, che però prende tempo per decidere. Ma quando l’esitante Orloff viene a sapere che Gu è in libertà e sta cercando di prendere il largo per l’Italia, si fa subito indietro e cede il posto al vecchio amico offrendogli così l’opportunità di lasciare la Francia con le tasche piene. Nonostante la contrarietà di Manouche, sempre più preoccupata per l’incolumità del suo uomo, Gu accetta: sarà il suo “deuxième souffle”.

RECENSIONI

Perentoriamente liquidato da critica e pubblico come un indigeribile e pomposo polpettone, Le deuxième souffle di Alain Corneau è un noir molto meno abominevole di quanto si dica in giro. Sui giudizi negativi pesa il gigantesco equivoco del peccato di lesa maestà nei confronti di Jean-Pierre Melville. Equivoco accecante perché il film di Corneau non è il remake del film di JPM del 1966, ma un nuovo (e “altro”) adattamento dell’omonimo romanzo di José Giovanni (pubblicato nella gloriosa Série Noire delle Editions Gallimard nel 1958). Come noto, lo scrittore/sceneggiatore/cineasta di origine corsa non amava il film di Melville a causa della mancanza di ossigeno e sentimenti (conoscendo la sensibilità di Giovanni questo non può sorprendere, basti pensare al travagliato romanticismo di Ultimo domicilio conosciuto del 1969 o all’accorata amarezza di Due contro la città del 1973). Corneau, amico e primo assistente di Giovanni, carezzava l’idea di riadattare il suo romanzo fin dagli anni ’70, col consenso dello scrittore ex truand e con l’idea di metterne in risalto la componente sentimentale prosciugata da Melville. Tra tentennamenti e conati infruttuosi il progetto è rimasto nelle intenzioni, finché Corneau non ha riletto il libro e si è deciso a scrivere una sceneggiatura in cui spiccassero proprio quelle componenti sentimentali (l’amicizia e l’amore) così asciugate dal maestro di Rue Jenner. Elaborata la sceneggiatura, il casting ne ha seguito la falsariga romanticheggiante: emblematica la scelta di Daniel Auteuil nel ruolo di Gustave Minda, una commistione di solidità fisica e fragilità di sguardo. La galleria dei personaggi, fatta eccezione per l’incauta Bellucci nei panni della platinata Manouche, è di un’esattezza ineccepibile: Michel Blanc tondeggia un commissario Blot scafato e pietoso al tempo stesso, Jacques Dutronc veste il trench di Orloff con partecipe compostezza, Gilbert Melki dà volto a un Jo Ricci di sfacciata ripugnanza e soprattutto Nicolas Duvauchelle interpreta un Antoine Ripa di proterva spavalderia. Sono tutti personaggi che, pur non smarcandosi da una rigorosa e programmatica convenzionalità, hanno la “gueule de l’emploi” e i tempi giusti per recitare una tragedia camuffata da noir (il destino di Gu, riflesso nell’apprensione di Manouche, è segnato fin dall’inizio). Prendendo deliberatamente le distanze dall’algida perfezione della messa in scena melvilliana, lo stile visivo di Corneau plasma un universo dai toni caldi e talvolta acidi, schivando il naturalismo da una parte e la solennità classicheggiante dall’altra. Il regista de Il fascino del delitto (1979) e Codice d’onore (1981), i suoi due capolavori, sostiene di essersi ispirato al cinema asiatico per coreografare la morte (e in effetti i suoi ralenti fanno molto Woo e i suoi dolly tracciano il set alla Johnnie To), ma il concept visuale risultante sembra più che altro debitore ai codici iconici delle bandes dessinées (donde l’assurda accusa di fumettone che è stata rivolta al film). Tagli sbilenchi delle inquadrature, raccordi ellittici, particolari iperrealistici, luci pop, bidimensionalità esibita, violenza grafica: Le deuxième souffle dispiega un’impaginazione visiva che proietta l’immaginario stereotipato del noir (in questo senso va anche il formato cinemascope 2.35: 1) e la mitologia del milieu in una dimensione iconografica distante sia dalla ieraticità melvilliana (che Corneau ha splendidamente riproposto in Codice d’onore) sia dal realismo asciutto e nevrotico (frequentato ne Il fascino del delitto). A enfatizzare il disperato romanticismo di fondo provvedono le musiche di Bruno Coulais: languide, eccessive, sfrontatamente drammatiche. Dunque Le deuxième souffle è un fumettone? Ebbene sì, ma a bella posta.