Biografico, Drammatico

L’ANGELO DEL CRIMINE

Titolo OriginaleEl Ángel
NazioneArgentina, Spagna
Anno Produzione2018
Durata118'
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Buenos Aires, 1971. L’angelico ed efebico viso del diciassettenne Carlos nasconde intenzioni criminali: unico suo desiderio, sin da bambino, è quello di divenire un ladro. A lui si unisce il compare Ramon, con cui forma un pericolosissimo duo.

RECENSIONI

Una sorta di manifesto con la voce fuori campo del protagonista apre la pellicola del giovane regista Luis Ortega, trasposizione in parte reale e in parte no della vita dello spietato serial killer argentino Carlos Robledo Puch, che colpì l’opinione pubblica argentina degli anni 70 per l’ossimoro tra efferatezza dei crimini e candore dell’aspetto fisico, tanto da riservargli il nome di “Angelo della Morte”, e quel manifesto basta a dichiarare fin da subito le intenzioni del film: «La gente è fuori di testa, nessuno considera la possibiltà di essere libero? Libero di andare dove vuole, come vuole…tutti abbiamo un destino, io sono ladro di nascita, non credo in questo è mio, questo è tuo…ho avuto dei buoni esempi, i miei genitori sono brave persone».
L’angelico puttino testa di morte, interpretato dal giovanissimo Lorenzo Ferro, parla ed espone le sue motivazioni con la chiarezza sola di chi è completamente distaccato dal reale, e quindi, ci dice il film, più presente e lucido che mai: ruba, uccide e abusa senza ricoprire i suoi atti di nessun investimento emotivo o simbolico.
Ed è a partire da questa mancanza di investimento emotivo che si pone la prospettiva di tutto il film, di cui si scorgono due linee interpretative fondamentali: la prima è politica, Carlitos nel suo distacco e nella sua libertà d’indifferenza è una sorta di anti-eroe scevro dalle proibizioni e dalle repressioni che il contesto storico da lui abitato gli propone, in contrasto alla famiglia appartenente a quella piccola borghesia argentina che sarà più connivente con la dittatura; la seconda ha un carattere più libidico-desiderante – e qui si nota la produzione di Almodóvar -, poiché le azioni del protagonista si ripetono in maniera macchinica e il loro procedere sembra quello del desiderio stesso: pulsione costante (di morte, perché no?) e senza fissazioni, in pieno atto, sempre pronta a trasformare i simboli carichi di significati - della Storia, della narrazione, del delitto - in segni da riutilizzare svestendoli dall’ossessione del significato.
Da qui le costanti citazioni alla storia, anzi la storia stessa che diventa citazione ai bordi del film, il nome del Padre (e cioè del conflitto) che viene disatteso invece che affrontato negandone il suo peso simbolico (Carlitos chiede spavaldo una sigaretta al poliziotto mentre lo sta interrogando, non ponendosi il problema dell’autorità).
Gli eventi storici però a causa di questo afflato bohémien che si vuole conferire al personaggio rimangono sempre - piatti - sullo sfondo del film, citati dal (e come) il piglio capriccioso del protagonista: così Carlitos  paragona il rapporto con il socio Ramòn ad Evita e Peron mentre si specchia alla vetrina della gioielleria che stanno svaligiando oppure  aggancia al maglione consunto di un barbone una perla della refurtiva per poi essere subito redarguito dall’amico, come fosse una sorta di Robin Hood frivolo, più interessato a cogliere il paradosso dell’outfit appena composto che ad altro.
Il regista prova a restituire tutto ciò attraverso un’estetica pastellata e eye-friendly, intramezzandola a scene pop di balletti su classici della canzone argentina o su brani internazionali reinterpretati in lingua madre: le scene si susseguono come un montaggio ad intensità fissa di rapine, omicidi all’occorrenza e ambiguità sessuali a tinte leggere cercando di ripercorrere attraverso le scene la psicologia del personaggio.
E proprio in questo tentativo infantile come i (non) desideri di Carlitos il film finisce per tentennare: l’universo estetico viene rimpiazzato da quello cosmetico e la ripetizione delle scene appiattisce la trama visiva e narrativa del film.
In questo turbine iperrealista, per cui niente è un simbolo e tutto è un segno, può capitare che si restituisca la versione scialba di ciò che si vorrebbe comunicare - per amore della velocità di fruizione, dati, a quanto pare, i tempi della moda - e che il tentativo di ragionare su un soggetto completamente estraneo al contesto repressivo vissuto diventi infine una provocazione senza prurito, un colpo nel sonno senza risveglio.
I temi che i film vorrebbe restituire, infatti ,vengono toccati di striscio o, per meglio dire, riletti nell’ottica infantile, easy peasy, del protagonista: ogni cosa assume le tinte pastello della fotografia della pellicola e nel procedere psicotico del protagonista non c’è cosa (posa) che possa essere spiegata facendo riferimento a qualcosa di diverso da ciò che appare, come se dovesse essere per forza un benefit non impegnare mai lo spettatore ma piuttosto appagarlo nel suo gusto, si ripete, cosmetico e non estetico.
Accade allora che il film si inceppi proprio nel manifesto del suo protagonista: dal vivere con indifferenza e distacco un ambiente che prova a normalizzarlo, (attraverso la polizia, attraverso la famiglia, attraverso le teorie di Lombroso citate nella seconda parte del film) al restituire questa indifferenza appiattita e tinteggiata (ma non dovevamo finirla con l’hipsterismo?) nello sviluppo della pellicola.
Se l’interpretazione è diventata onerosa così tanto da renderla cosmesi, allora è meglio fruire di un cinema che si limiti a (far) consumare senza troppa volontà le proprie storie. Se tutto è segno allora meglio che sia carino e capriccioso come lo sguardo di Carlitos o come il balletto finale nella casa in cui è rifugiato mentre la polizia lo aspetta alle porte. La domanda però (al regista, al film) forse resta lecita: se è sostenibile e alla moda, che provocazione è?