Drammatico

LA MALA EDUCACIÓN

Titolo OriginaleLa Mala Educación
NazioneSpagna
Anno Produzione2003
Durata110'
Sceneggiatura
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Madrid, primi anni Ottanta. Il regista Enrique riceve la visita di un giovane che gli fa ricordare i tempi del collegio.

RECENSIONI

Alla vana ricerca di un soggetto cinematografico, Enrique ritaglia dai giornali articoli di cronaca più o meno bizzarri, finché una persona giunta dal passato non gli propone di alimentare la creazione artistica tramite la memoria autobiografica di fatti accaduti realmente… o quasi. Fin dal prologo (anzi, fin dai titoli di testa, mélange d’immagini - religiose e non - fra Warhol e Roy Lichtenstein) La mala educación mescola i piani della finzione (la novella di Ignacio, il film, le indagini di Enrique, il racconto del signor Berenguer), schiva ogni facile soluzione del “giallo” (la lettera troncata) e si concentra sui rapporti fra i personaggi, fatalmente bugiardi, inevitabilmente crudeli (in primo luogo con se stessi), inguaribilmente infelici. Malgrado la nota sapienza formale e la dichiarata passione del regista (che afferma di essere stato ossessionato per anni da questo soggetto), il film è un inerte catalogo dei tratti meno appetitosi del cinema (non solo) recente di Almodóvar: il citazionismo di TUTTO SU MIA MADRE si fa petulante sfoggio di souvenir [il target prediletto è Hitchcock, dai titoli di testa - e dalla scala di Arbogast/Manolo - di PSYCO alle miste identità di VERTIGO, al crimine a porte chiuse di ROPE (filmato da Enrique, manco a dirlo, in piano sequenza)], la secchezza delle caratterizzazioni rinvia più al gelido CARNE TREMULA (i grotteschi amplessi accessoriati di metacinema) che al trepido PARLA CON LEI (a proposito: inguardabile il cameo drag di Javier Cámara) e nella (ormai) paludata orgia di colori squillanti e musiche idem si affacciano con molesta insistenza frammenti di TACCHI A SPILLO (Gael García Bernal nei panni di Miguel Bosé) e LA LEGGE DEL DESIDERIO (il pellegrinaggio di Zahara ricorda quello di Tina). Le sequenze che descrivono il mondo dell’infanzia (tenere, screziate di amara ironia, visivamente stimolanti - la ferita di Ignacio -) non bastano a riscattare un film-collage macchinoso e prolisso, tanto sicuro del proprio charme in abîme da trascurare tutto il resto: scritto (quasi sempre) coi piedi, diretto con la mano sinistra, recitato con i glutei (metaforicamente, ma anche no). Un vero peccato.

LA MALA educación è un bocciolo intenso di rimandi e citazioni nel quale riluce la firma in calce del suo autore: spaccando in due il testo filmico, Almodovar presenta la prima metà come un oggetto glamour giocato in iperbole (ostentato il travestitismo) e nella seconda imbraccia il giallo retrò dove l’estetica del dettaglio semina concupiscente ambiguità – il luogo amniotico della piscina è teatro di uno sfuggente mistero sessuale (Chi è Ignacio? E’ etero o omo?). L’ignavo spagnolo, fragile demiurgo di due/tre idee al massimo che pareva ridotto a girare sempre lo stesso, gayo film, qui restituisce invece un estremo rigore formale e narrativo, attraverso il quale il pentolone delle suggestioni raggiunge meritato silenzio. Impresa ardua imbrigliare tale gorgoglio di spunti (dalla Chiesa all’omosessualità, dalla pedofilia al metafilm) ed infondere senso compiuto, ma il globale è una sorpresa: in contropiede sugli stessi ammiratori il regista ha superato la transmacchietta (o perlomeno, non vi si è fossilizzato) per andare a parare da tutt’altra parte. La folle caricatura sull’arte dello storytelling consegue addirittura un risultato antagonista: dove si attende la conclusione ne arrivano due (film nel film + film), dove si annusa la filippica anticlericale questa si veste da elegante parodia (la pietas cristiana si chiama overdose), nel finale ostaggio della didascalia c’è ancora spazio per un guizzo di passione. Ma soprattutto: a vivere due (e più) volte non è la classica donna, ma... ma la categoria dei diversi si prende la rivincita sul noir anni ’40 (il passato, il ricatto) in un gesto metaforico che contiene ogni freak reclamante il proprio spazio scenico. Può anche darsi che il film sia pigro sollazzo cinefilo, un povero EFFETTO NOTTE dell’altra sponda: Pedro sarà pure tarato in partenza ma per stavolta Sir Alfred non lo fulminerà, dato che intreccia ricami d’inattaccabile splendore (i titoli di testa, lo sfoggio scenografico) e disegna perlomeno una scena memorabile (la morte di Ignacio: egli cade sulla macchina da scrivere tuffandosi nel racconto). Nonostante l’equilibrio sul filo del pacchiano (la sequenza al museo dei mascheroni), l’unico travestimento è quello consegnato alla finzione scenica: l’autore rimane sempre riconoscibile, ci mette sé stesso ed in effetti un debito lo assolve – quello del cinema con l’alterità emarginata e/o strumentalizzata. Una Barbara Stanwyck con addominali e parrucchino è la sua graziosa ipotesi alternativa.

Il nero del peccato e il rosso della carnalita' si fondono nei poster stracciati che compongono i bellissimi titoli di testa, mentre la parola "passione" suggella la fine della torbida vicenda imbastita da Pedro Almodovar. In mezzo tutte le sue ossessioni: il film nel film, il marcato anticlericalismo, le icone gay del cinema (questa volta Sara Montiel nel drammone "Esa Mujer"), i colori vivaci spalmati con estro e brio, gli amori impossibili, il gusto per la provocazione, i dettagli sessuali piccanti, i tradimenti, le lacrime, i tacchi a spillo, i seni posticci, i vestiti pacchiani e le parrucche cotonate. Insomma, tutto l'universo bizzarro a cui il regista spagnolo ci ha da sempre abituati. Da spettatori viziati ed esigenti, pero', finiamo per dare per scontata la ricchezza visiva e grattando la sofisticata superficie questa volta restiamo un po' delusi. L'aspetto piu' interessante, alla lunga purtroppo anche il limite maggiore, e' il complicato intersecarsi di tre diversi livelli narrativi che intrecciano, spesso senza soluzione di continuita', flashback, fiction e realta', dando vita a una progressione suggestiva e ai limiti del virtuosismo ma non cosi' efficace. Se l'impianto riesce a sedurre, infatti, le motivazioni dei personaggi e il forte pulsare dei loro cuori unito all'accendersi dei sensi, disperdono il potenziale coinvolgimento in una meccanicita' poco comunicativa. E l'ennesimo amore omosessuale in chiave clerico-pedofila finisce per stiracchiarsi troppo nel passaggio dalla commedia al noir, dando vita a un teatrino grottesco che matura incapace di esplodere e la cui drammatica vitalita' resta perlopiu' nelle intenzioni. Poco giova alla riuscita del film la scelta come protagonista di Gael Garcia Bernal, sguardo furbetto tutt'altro che languido e movenze da calciatore in panchina, vittima di un personaggio cruciale ma un po' irrisolto: travestito per caso, gay per necessita' o amante per desiderio? Il film prova a renderne le molteplici sfaccettature, ma si perde in altri interrogativi, non altrettanto brucianti, disseminati lungo un racconto labirintico e cerebrale.

Il film ha suscitato accese polemiche, per la sua pretesa valenza di propaganda politica nella Spagna del nuovo corso di Zapatero. Polemiche pretestuose, va detto, non solo perché il regista lo elaborava da anni, ma anche perché ne è espunta – come sempre in Almodovar – una specifica o troppo insistita dimensione politica; la stessa pedofilia non vi gioca il ruolo di suggerimento per una polemica anticlericale – benché alla Chiesa, e in realtà a ogni potere che invochi una garanzia trascendente, sia riservata una battuta fulminante – ma di una declinazione, certo la più disturbante, della passione. I motivi reali dello sconcerto, chiaramente percepibile nel pubblico al termine della visione, sono altri: la totale immersione nell’omosessualità, il racconto della vita erotica dell’infanzia – scoperta da Freud un secolo fa, ma che una cultura tesa a idealizzare e desessualizzare l’infanzia non sembra ancora pronta a recepire, nonostante il furioso sfruttamento che ne perpetra quotidianamente – e la rappresentazione veramente realistica e diretta, perfino cruda del sentimento, del desiderio e del sesso, al di là di ogni illusione romantica o svolazzo surreale o capricciosa esagerazione. Sintassi e semantica sono in piena consonanza, circostanza talora fortunosa nel cinema del manchego: se in altre occasioni lo stile non è divento urgenza espressiva ed è rimasto sfogo solipsistico, qui la mise en abîme del testo, col film che sprofonda in un racconto che sprofonda in un film, è il corrispettivo strutturale – l’emanazione linguistica – del profilo tematico, che potremmo chiamare dell’inconsistenza e definitività della maschera. Non si può dire che il regista abbia rinunciato alla propria esuberanza romanzesca; anzi, ha confermato la tipica tendenza ad accumulare materia fuori da ogni canone di convenienza, e a inventare linee narrative per farle inopinatamente sbandare all’interno di altre; tuttavia, gli si è rimproverato un cattivo governo del soggetto, non solare e poetico, anche nel torbido delle passioni, come si converrebbe al celebrato e coccolato Pedro.

Tale appunto è indicativo dell’attesa che il nome di Almodovar innesca nella critica da patatine fritte, monoteistica e da rigor mortis, che lo intende come una Liala del cinema pop; la critica pronta a cadere in deliquio di fronte alle spremute di pathos in Tutto su mia madre o all’inesauribile frizzìo ritmico di Donne sull’orlo di una crisi di nervi, ma inabile a scendere sotto la superficie per osservare meglio. Quindi, che il bravo regista gay – e ci si sente tanto liberal ad apprezzare un regista fieramente gay – continui pure a parlare di donne innamorate e isteriche, di simpatici e innocui travestiti, di storie intricate quanto si vuole ma a lieto fine; ma che non si attenti a raccontare una storia in cui l’omoerotismo è totalmente pervasivo, o una donna vive le più acute sofferenze perché non sa liberarsi dalla dipendenza psico-fisica, che usiamo chiamare amore, da un uomo banale. Dunque, il suo film più grande fino a ieri – Il fiore del mio segreto – viene scambiato per un mezzo passo falso, un Almodovar crepuscolare e forse al crepuscolo della sua ispirazione chiassosa e ironica; Tutto su mia madre è accolto come un film sulla bontà dei trapianti e sulla potenza dell’amore materno (ma l’ultima inquadratura non era riservata alla solitudine irredimibile e pienamente consapevole di Marisa Paredes?); Parla con lei è visto come un’opera sui miracolosi risvegli dal coma e – ti pareva – sulla potenza salvifica dell’amore: un amore che tuttavia si traduce in violenza carnale, conduce al suicidio, e per l’intero film è non corrisposto o falsamente corrisposto. A volte, nell’ispirazione di un autore si insinua un fattore, di forza intrinseca nel e del racconto, che lotta con la finitezza dell’immagine. È un coefficiente di natura così spropositata che la stessa mano destinata a incanalarlo ne rimane ipnotizzata e soggiogata. La grandezza dell’autore c’entra relativamente: non è raro il caso di un bravo ma non eccelso regista che fa un gran film. Ma, al di là di questa ipotesi, ciò che rende destabilizzante una pellicola in tali casi è l’unione di uno stile registico che può apparire pesante – per esempio nella rigida monosemia delle metafore: la testa del bambino che si divide in due, solcata da un rigo di sangue, a segnalare la frattura che allora si produce nella vita e nella stessa personalità di Ignacio, aprendo un nuovo sipario sulle sue vicende – e della grandezza e della forza di ciò che la storia lascia trasparire con una lucidità che ferisce (e infatti la sequenza appena citata sarà pure rigidamente monosemica, ma è anche di straordinaria potenza espressiva). È il caso di certo cinema di Herzog, che stravolge i topoi drammatici nel momento stesso in cui li utilizza. È anche il caso dell’ultimo Almodovar. Sentimento, erotismo, amore: ciascuno di essi ha un doppio, talvolta un triplo fondo, che denuncia la dolosa contraffazione del precedente. Non appena lo spettatore si affeziona a uno di essi, e al personaggio che sembra inverarlo, sopraggiunge un coup de théâtre – che in pari tempo è un maligno deus ex machina – a disilluderlo.

C’è una frase di Manzoni, perfetta nella sua freddissima calma, che implica una poetica e un’etica. “Poesia è un vero veduto dalla mente per sempre o, per parlare con più precisione, irrevocabilmente”: esiste una verità ed esiste una mente che vi si pone dinanzi e la vede per sempre, ossia in una dimensione formale che impegna in modo irrevocabile. Chi tale verità ha visto non può esserle troppo a lungo infedele; lo scontento del pubblico è il prezzo che Almodovar paga a questa fedeltà. Un autore che pareva avviato a un dominio ferreo – effervescente e paludato al tempo stesso – e di ecumenico successo delle proprie visioni e ossessioni, ha voluto spezzare tale equilibrio perché ha avvertito come l’astuta sapienza del raccontare e del divertire e del commuovere fosse un velo manierista – il cui vertice è probabilmente rappresentato da Carne tremula e Tutto su mia madre – che aduggiava la forza e la verità di quelle visioni e ossessioni. Da sempre ci rallegravamo con le battute o le scene o i personaggi “alla Almodovar”; oggi tutto questo ci viene proposto per appena mezz’ora, e poi viene cancellato sotto i nostri occhi. I titoli di testa – eccezionale e disordinata summa figurativa dei temi e delle immagini del film (volti, parrucche, tonache, locandine, graffiti osceni, foto di star, coccodrilli) – non sono soltanto una geniale citazione hitchcockiana, ma anche un’anticipazione: come in Psycho la primattrice viene eliminata a un terzo della pellicola, così noi assistiamo all’eliminazione (definitiva?) dell’Almodovar prima maniera, che negli ultimi dieci anni – a partire da Il fiore del mio segreto – ci eravamo ancora sforzati di ravvisare, in film che se ne allontanavano sempre di più sublimando la trasgressione brillante ma spiccia in sentimentalismo eversivo, rifuggente da ogni cedimento al buonismo consolatorio oggi di moda, e sostituendo alla provocazione programmata una lenta rivoluzione formale. Stanco dunque di essere frainteso, il regista spagnolo ha piombato i suoi estimatori in un terreno sconosciuto, lasciandoli orfani dei noti punti di riferimento: la risata liberatoria (qui ha spazio solo un sarcasmo ghiaccio e avvelenato), il rassicurante grottesco di vite strampalate, il felice abbandono a innamoramenti dissennati, il trionfo della carne e dell’amore congiunti in un destino di speranza se non di felicità (la stupenda ma precaria sintesi realizzata in Carne tremula); l’una e l’altro vanno ora ciascuno per suo conto: la carne con la speculazione sul rimpianto e il desiderio da parte dell’ambizione spietata, l’amore col masochismo di chi si condanna a schiavo della memoria e della fragilità dei propri sentimenti. È così che l’innocente vittima di un abuso sessuale sarà un ricattatore, il responsabile della violenza verrà sfruttato e ricattato, il figlio affettuoso sarà un fratricida, il cinico manipolatore dell’altrui debolezza – autentico homme fatal al quale il messicano Gael Garcia Bernal offre un triplice volto – cercherà e troverà un’immedesimazione lacerante col più atroce dei propri fantasmi. Da questo punto di vista, il film può essere considerato come una variazione sofisticata, ma non meno sfiduciata, sui temi di Vertigo: l’amore come fissazione maniacale e necrofila; i rapporti personali come gioco crudele di identità, di vite e di ruoli scambiati, perduti, rubati; l’appagamento e la frustrazione del  desiderio come facce della stessa tragica medaglia.

Davvero non stupisce che il film non abbia incontrato l’entusiasmo del pubblico, che si attendeva un minestrone gustoso e variopinto e incoraggiante, e ha ricevuto in dono un’intricata trama di inganni e di eccessi finalmente scevra da pietà, che affonda con le armi più pericolose nelle nostre aspettative: se già conoscevamo l’arte combinatoria di Almodovar, che tratta la commedia come un dramma e il dramma come una commedia, non eravamo forse pronti per un’opera che non solo li fonde, ma li spiana entrambi perché vi ravvisa, nella vertigine narrativa non meno che in quella visiva, una stratificazione interminabile di ingannevoli apparenze. Possiamo misurare qui tutta la distanza che separa Almodovar dai registi banalmente postmoderni, cristallizzati in una sensibilità magari raffinata ma depauperata e infeconda. Infatti, ciò che abbiamo di fronte è non già una mescolanza di generi bensì il loro ripudio; in secondo luogo, il caleidoscopio narrativo, estremo come può esserlo un gesto di gratuita malvagità e di reiterazione della morte (ah, quel biglietto consegnato da Juan a Enrique!), sarà forse compiaciuto, ma è soprattutto estremista, virtuosistico ma straziante come può esserlo il tocco di un artista animato dal genio di un’intuizione rigorosa e struggente. La ripetuta sovrapposizione della “macchina” cinematografica a quella letteraria autorizza la sineddoche per cui nell’ultima immagine viene visualizzata in modo raggelante – e in virtù di quanto abbiamo visto, dunque per somma di virtù drammaturgiche e figurative – l’impotenza dell’arte in generale a definire o almeno a simulare un ordine consolatorio. L’intuizione non era troppo diversa ne Il fiore del mio segreto, Carne tremula, Tutto su mia madre, Parla con lei; ma mentre là il sipario si riapriva in modo semplicissimo a siglare, con inattesi momenti di fiducia nel futuro, film altrimenti disperati, qui non è concessa una via di fuga alla disperazione: la passione, parola su cui La mala educación si chiude, non è oggetto di celebrazione, neppure come illusione benefica, ma di amarissima indagine; non certo per caso, ma con precisa scelta poetica, l’erotismo che ci attenderemmo dominante in talune sequenze viene sottilmente contraddetto attraverso elementi inquinanti (dettagli imprevedibili e fuori schema; la musica, ovviamente composita ma che richiama in taluni passi non solo i motivi hitchockiani del grande Bernard Hermann, ma anche – se l’orecchio non ci ha ingannato – il preludio al terzo atto del Tristan und Isolde) e giocati su una tinta dark che investe lo spettatore d’un’angoscia senza nome. Il quindicesimo film di Almodovar è certamente il suo meno “divertente”, il più nero, il più cupo nel sondare l’abisso del cuore umano. È anche un assoluto capolavoro. Ma possiamo capire che questo conti poco per il pubblico del sabato sera, assetato di innocui intrattenimenti.