TRAMA
Quattro famiglie a Visalia, California: quattro ragazzi e la loro vita in una spirale di violenza, sesso, odio e amore.
RECENSIONI
Due parole sulla genesi del film: i caratteri sono stati creati da Larry Clark e le loro storie sceneggiate da Harmony Korine (autore del bellissimo DOGMA #6 - JULIEN DONKEY-BOY). Il regista ha poi diretto il film assieme all'amico Ed Lachman, grande direttore della fotografia, variando il finale e incorrendo nelle ire dello sceneggiatore. KEN PARK vorrebbe essere una descrizione cruda e realistica della vita di quattro ragazzi che, ciascuno a suo modo, martirizzati dalle rispettive famiglie, accumulano dolori e nevrosi. Un atto d'accusa nei confronti della Sacra Istituzione, dunque, che, spesso e volentieri, per nulla curando la sensibilità e le esigenze degli adolescenti, ne fa delle vittime e dei nuovi carnefici in potenza. Il problema è che Clark (e il suo coregista) più che sondare il tema e renderlo visivamente, sembra molto più interessato a spingere ai limiti la rappresentazione con una serie di sequenze che vorrebbero shockare ma che hanno l'unico effetto di lasciare tutta la problematica in superficie senza nulla approfondire. Se il suo scopo è quello di mostrare la nudità, soprattutto quella maschile (non lo dico io, lo ha detto Clark in un incontro veneziano), che - ipse dixit - è generalmente trascurata dal cinema, si comprende come tutto l'impianto dell'opera sia un pretesto per arrivare a quell'obiettivo (e in questo senso capiamo anche la scena della masturbazione, restituita nella sua integrità). Tutto ciò non dimenticando che quello del nudo maschile al cinema è un tabù infranto da tempo (ormai il male full frontal si vede dappertutto, persino in tv, vedasi l'osteggiatissima - dal ministro Gasparri - serie inglese QUEER AS FOLK). Dunque KEN PARK si risolve in un catalogo di quadretti, il più delle volte insipidi e banali, che non acquistano certo nerbo per il solo fatto di essere accostati gli uni agli altri. Solo la sequenza finale, fatta di un sesso gioioso e gaiamente liberatorio, con i ragazzi distesi sul divano, alla fine degli amplessi, a parlare amabilmente, ha una sua autenticità e una sua forza. Larry Clark vorrebbe essere estremo ma gioca al provocatore fuori tempo massimo e il suo film si risolve in un festival di noiosa prurigine che ti colpisce non come un pugno allo stomaco ma come un mattone in testa.
Il dubbio, quando si parla di Larry Clark (qui co-regista insieme a Ed Lachman, apprezzato direttore della fotografia per Wenders e Bertolucci) è più che lecito, visto che l'esordio del 1995, con "Kids", lasciava trasparire un compiacimento di dubbio gusto. Con "Ken Park", però, lo stile si è evoluto: niente più sgranature da film verità, ma una bella fotografia curata dallo stesso Lachman e, soprattutto, una morbosità che sfuma in indifferenza, un'assenza di rielaborazione che colpisce sia i protagonisti che lo spettatore. Lo stesso vuoto dei personaggi si trasmette così al pubblico, che finisce con il subire le tante varianti sessuali mostrate e gli eccessi di violenza, senza particolare trasporto. Il soggetto e la sceneggiatura, elaborati da Harmony Korine (già regista del dogma "Julien Donkey Boy") permettono di entrare nella squallida quotidianità di alcuni ragazzi e delle loro famiglie che vivono a Visalia, piccolo paese californiano. Le casette a schiera racchiudono pulsioni inespresse e insoddisfazioni, ma soprattutto una rabbia feroce che impedisce a tutti i personaggi di trovare un equilibrio, o anche solo di cercarlo. Il film non offre soluzioni, ma sceglie un'estremizzazione dello sguardo lasciando allo spettatore il compito di motivare quanto esibito. Un cinismo di fondo trasforma ogni provocazione in normalità e punta il dito sull'inefficienza della famiglia, a cui viene indirettamente riconosciuto un ruolo fondamentale nella crescita dell'individuo. L'esito del film è ovviamente contradditorio, perché utilizza gli stessi elementi (sesso e violenza) che critica, ma suggerisce alcune considerazioni. Intanto fa piacere che per una volta il cinema non nasconda la vita, ma mostri corpi e secrezioni senza occultare con una dissolvenza quello che i personaggi vivono in prima persona. Certo, sarebbe molto più rivoluzionario abbinare il sesso esplicito ad una bella storia d'amore, senza per forza connotarlo in modo negativo e, perdipiù, a braccetto con la violenza. Inoltre è interessante che non siano tanto i ragazzini, quanto i genitori, il bersaglio del film. I giovani protagonisti, infatti, sono rappresentati come vittime di un'educazione fatta di regole, impartite da genitori che attraverso un ritornello privo di sostanza pensano di avere assolto il loro ruolo. In questo senso non stonano affatto le esagerazioni al limite del grottesco, esibite per quasi tutto il film, che diventano lo specchio di un occhio deformato, incapace di dare alle cose il giusto peso. Nonostante tutti i tentativi razionali per interpretare il lungometraggio, resta però un atroce dubbio: "Come mai dalla visione di "Happiness" di Todd Solondz, che affrontava tematiche non troppo dissimili, si usciva distrutti, mentre "Ken Park" non lascia alcuno strascico e, anzi, viene ricordato solo per le scene forti?".
L'adolescenza in un qualsiasi sobborgo americano (ma non solo) è l'inevitabile momento in cui avviene il confronto con il mondo: le pulsioni individuali strette in un contesto estraneo, l'amicizia come rifugio e ricerca di una nuova comunità. I personaggi creati da Larry Clark (così avvertono i titoli di coda) sono turbati ed emblema di questo, ignorato ma latente, è il giovane Ken Park che in apertura si è visto, attraverso la sua videocamera, farsi saltare le cervella in un parco per skaters. Peaches, Shawn e Claude sono abbandonati a loro stessi e costretti a subire meccanismi familiari e sociali che non vogliono comprendere od ammettere come possibili benché ne vedano gli effetti nei nuclei umani duc ui condividono spazi e mentalità. L'eterno sole nelle piccole case con giardino e posto auto non procura alcuna gioia, è sempre e solo un dato con cui confrontare il quotidiano schifo tra scuola droga e sesso. Chi va a letto con la madre della propria fidanzata, chi ha un padre religioso che trovatosi di fronte alla sessualità piuttosto disinibita della figlia mostra tutte le crepe della sua piccola esistenza, chi infine vive coi nonni e sbrocca alla consueta partita del sabato a scarabeo: non macchiette ma eccessi espressivi della disperazione. Se infatti i personaggi pur rasentando il filo del grottesco possono risultare interessanti per il complesso di dettagli cui sono immersi sono proprio l'assunto e la prassi registica a deludere. Larry Clark (Kids, Bully) collabora con Ed Lachmann per la realizzazione di "Ken Park", personaggi e situazioni sono tratti dai suoi diari, la sceneggiatura (in realtà solo la prima stesura) è di Harmonie Korine (Julien Donkie Boy) ma nonostante questo evidente sforzo costruttivo l'approccio con la materia, risaputa, è dei più scialbi: la facile enfasi sugli elementi potenzialmente disturbanti (la masturbazione con relativo autosoffocamento di Claude) unita a scelte registiche incapaci di scegliere (pur essendo evidente il tentativo d'univocità, che si riassume nel finale) tra una registrazione "fedele" di un'eventuale realtà, la caricatura morale, l'hardcore alla Haneke. Se la prolungata scena di sesso finale a tre vorrebbe aprire uno spiraglio per le disgraziate esistenza fino ad allora mostrate, questa costruzione di nuovo nucleo familiare da opporre a quelli parentali appare una pezza giustapposta per ricomporre quadri involontariamente disgiunti e moraleggiare continuando a voler essere sgradevoli ed inaspettati. Rimane pur vero che, come nota Giovanni Spagnoletti, ci siano allusioni ad una satira del genere adolescenziale e che questa possa essere una chiave di lettura ma da qui a poter accettare i pronunciamenti di morale della visione di Clark, c'è di mezzo tutta la storia del cinema. Tristemente mediocre.
Chi, che cazzo è Ken Park? Gioventù o genitori bruciati? Pornografia scandalistica o coraggiosa ostentazione? Sociologia spicciola o affabulazione involontariamente ridicola? Panacea del sesso o suo morboso dettaglio? Se il Jules e Jim finale senza veli trova una sorta di candore, in antitesi con “degenerazioni” che gli autori sembrano (?) additare (Ecco l’Impero dei Sensi tennistico con masturbazione in diretta; padre integralista sposa figlia sadomaso; Barbie-Mamma prepara alle grandi labbra il futuro genero), lo sguardo degli autori è (s)porco di ralenti e dettagli insistiti. Se l’intento era quello di (di)mostrare l’innocenza di quel che c’è sotto le mutande dei troppi omissis del cinema “mainstream” (previo VM 18), la loro ipocrisia è pari a quella del maschilista che teme l'omosessualità e si ritrova con il membro del figlio in bocca (cit. dal film!); se è il realismo ad essere millantato, le manifestazioni gratuite (vedi la scena “Birra&Urina”) rispetto all’economia del racconto non si contano e denunciano l’intento meramente provocatorio; se, infine, l’obiettivo era un quadro sul disagio giovanile, quel che vediamo è un insieme di figurine che, da sole, denunciano un caso, giustapposte fanno una rivista pornografica (Teorema di Tate compreso) con fini di lucro. Lo sceneggiatore Harmony Korine (lo stesso di Kids) pare programmare uno Smoke e sottace messaggi moralistici (la bambina lasciata davanti ad un video di deretani, i reality-show in Tv); Clark e Lachman vagano senza meta, sottraggono i giudizi e s’illudono che tanti racconti eccessivi “nudi e crudi” facciano una verità emblematica, invece ottengono il paradosso di un’allegoria grottesca senza causticità e senza concetti. Nel televisivo Adolescente delle Caverne dello stesso anno, Clark metteva in scena ancora un padre fanatico religioso, ma finiva tutto in un film camp-horror-trash dichiarato, quindi più accettabile. Ken Park, letto al contrario, significa “merda”, ma si può leggere anche Ken Pork: storia di uomini fallaci e fallocentrici.
Secondo Truffaut (e Hitchcock), “un regista non ha niente da dire, deve mostrare”. Clark e Lachman mostrano tutto, ma proprio tutto quello che è (im)possibile mostrare in un film: sesso e violenza a raffica (più la seconda che il primo), snuff (l’irruzione del padre di Peaches) e hardcore senza tregua. Nondimeno, KEN PARK è un’opera di sconcertante piattezza: i colpi bassissimi architettati dallo script non riescono a celare la mancanza (quasi) totale di idee visive minimamente interessanti (il contrappunto degli schermi televisivi è un’ovvietà, la videocamera che riprende il suicidio iniziale è anche peggio). Gli autori erano animati da un’intenzione documentaria? Avrebbero potuto fare un vero documentario (la materia prima non sarebbe mancata). Volevano filmare una parodia di vacui stereotipi da teen fiction? Avrebbero dovuto ri/guardarsi NOWHERE di Araki, travolgente e perfida riscrittura di temi e figure da palinsesto pomeridiano, in cui l’insipida e nuda crudezza del modello [e di alcune sue parti semoventi (lo stupratore interpretato dal Simmons di BAYWATCH)] non è l’alibi per una confezione scialba e rimasticata, ma il punto di partenza di una pazzesca avventura audiovisiva in spericolato bilico fra pop, minimalismo, visitor splatter da guerra fredda e la sismica vena melodrammatica che percorre(/precorre) l’Apocalisse postmoderna. La parodia, la satira, lo sberleffo richiedono un testo di riferimento, ma anche una presa di distanza. KEN PARK non è una parodia della televisione, ne è la naturale conseguenza, una fiction sporca ma non troppo (o meglio, non abbastanza): personaggi stereotipati, dialoghi noiosi oltre ogni visione inguinale, uno sconcertante ammicco ruffiano – realmente contro natura – inserito con penosamente avvertibile sforzo nell’orgia del prefinale. Clark è, al suo meglio, un buon regista e un ottimo direttore di attori: uno sguardo, un’inquadratura possono tratteggiare l’anima vitrea di un’intera sequenza, di tutto il film. Purtroppo, se la visione è monocorde, la sequenza si ripiega svogliatamente su se stessa, la successione di quadri glaciali non riesce a farsi vera struttura visiva, gli shock si succedono in maniera meccanica e il film si smarrisce in una melassa anodina, lontana dal paradiso come dal barbaro furore del superbo BULLY, la cui forza stava nel frenetico ribaltamento, in chiave tragicamente grandguignolesca e beffardamente comica, di un intero repertorio da piccolo schermo (risorse umane comprese). Sebbene “tratto da una storia vera”, BULLY era un vero film: KEN PARK, creato a tavolino dal trio Clark – Korine – Lachman, è una tediosa imitazione della peggiore televisione. Sarà anche vita (vedi MARITI E MOGLI), ma (nonostante l’impeccabile patina trash superlusso e gli inserti nebulosamente porno) è m(od)esto cinema.