TRAMA
L’amore impossibile che si chiedono Miguel, medico, e Wren, dirigente di un’organizzazione umanitaria, impegnati nell’inferno delle guerre che sconvolgono il continente africano.
RECENSIONI
Liberia, Sud Sudan, Sierra Leone, campi profughi, violenze, morte, orrore. E l’amore che sboccia e prova a resistere nello spazio e nel tempo della guerra, e, dunque, una dimensione crudele, assurda, “irreale”. Amore che li tiene vicini e poi li allontana, in seguito li riavvicina e di nuovo li separa, negli anni che passano, nelle distanze tra i mondi che Miguel (Javier Bardem) e Wren (Charlize Teron) di volta in volta attraversano, abitano provvisoriamente. Identità diverse ma condannate entrambe a essere sempre fuori luogo, come il loro sentimento.
Dalla sceneggiatura di Erin Dignam – che a lungo ha vissuto in Africa centrale e che inizialmente avrebbe anche dovuto dirigere il film – lo Sean Penn regista (e compagno di Charlize Theron all’epoca) ricava, però, la sua opera più informe e pasticciata. Il tuo ultimo sguardo accumula tutto senza personalità, senza visione, mette in un tronfio, patinato e pessimo catalogo l’afflato civile e il melodramma, il percorso emotivo ed esistenziale della coppia e il racconto degli ultimi del pianeta. È un film-contenitore ma infine vacuo, dove l’apparenza esonda mentre la sostanza langue. I teatri di guerra africani sono poco più che messa in scena al servizio delle star, e così le crisi e le impotenze, gli smarrimenti, le paure o anche il terrore dei loro personaggi non riescono mai a dialogare o a entrare in contrasto, in crisi, con lo spettatore che guarda, che ascolta; è come se tutto ciò che Miguel e Wren fanno o non fanno, dicono, pensano, producono, vivono arrivasse sempre in “differita” e smorzato all’altra parte: debolissimo, inautentico. Ma l’aggravante, soprattutto, è che la guerra, il dolore, la tragedia, la ferocia, l’assenza di umana pietà riescono a esprimersi soltanto nelle forme dello sciocco allestimento effettistico, come shock prefabbricati, in una trita e appesantita estetica delle emozioni. L’amore infelice che attanaglia la coppia, invece, quello che poi è cuore e collante narrativo del film, sembra il tentativo del regista di riprodurre territori visivi e sonori, accensioni, voci e corpi malickiani, ma l’esito sfocia in una banalità greve, in un’imitazione maldestra, un lirismo irritante e forzato (e anche un compositore come Hans Zimmer diventa insopportabile).
La sincera passione etica e politica del regista, insomma, non solo non riesce a tradursi in tensione filmica - magari fosse soltanto quello il problema - ma sprofonda in un groviglio improponibile e imbarazzante (è come se vi fosse rimasto qualcosa del Penn cosceneggiatore del bruttissimo action The Gunman di Pierre Morel, dove tra l’altro era anche protagonista e produttore). Restano almeno delle conferme: la bellezza superiore di Charlize Theron, l’ormai malinconica immutabilità della maschera, di quello sprazzo recitativo che è Jean Reno, Adèle Exarchopoulos come concetto più che come attrice, Bardem che è Bardem. Ma volere bene a qualcuno, come ne vogliamo a Sean Penn, che ha dimostrato di essere regista e autore tutt’altro che sprovveduto in passato, significa anche dire le cose come stanno: tremendo.
