TRAMA
1903. A venticinque anni dagli avvenimenti, Mattie Ross racconta la storia dell’inseguimento in Territorio Indiano dell’assassino di suo padre: Tom Chaney. Protagonisti: se stessa quattordicenne, lo sceriffo federale Rooster Cogburn detto “Il Grinta” e il Texas Ranger LaBoeuf.
RECENSIONI
Ambientato in Arkansas e in quel Territorio Indiano che sarebbe diventato Oklahoma nel 1907, girato tra New Mexico e Texas e fotografato dal fido Roger Deakins, Il Grinta è un film apparentemente poco coeniano, dunque profondamente, camaleonticamente coeniano: una pellicola che offre ai fratelli di Minneapolis l'opportunità di montare in sella e indossare le fondine dopo le suggestioni western di Non è un paese per vecchi. Che True Grit, adattamento del secondo romanzo di Charles Portis, non sia un remake dell'omonimo film di Henry Hathaway del 1969 col Duca e Robert Duvall (nonché Dennis Hopper in una parte minore) è un dato di fatto appurato e incontrovertibile. I Coen hanno deliberatamente preso le distanze dall'anacronistica pellicola di Hathaway (girata nel 1969 ma dalle sembianze di un western dei tardi anni '50) e si sono rivolti al True Grit portisiano misurandosi direttamente con le sue 175 pagine (quantomeno nella traduzione italiana). Meno noto invece che il romanzo di Portis, originariamente pubblicato a puntate nel 1968 sul Saturday Evening Post, sia presto entrato a far parte dei programmi di letteratura delle high school e si sia consolidato come pietra angolare del genere delle avventure giovanili. Un classico della letteratura americana.
Stanti gli onori e gli oneri che l'adattamento di un libro simile comporta, il lavoro dei Coen sul testo di Portis è stato sottilmente personale: pochi ma significativi interventi sul tessuto narrativo (l'attenuazione del ruolo del Texas Ranger LaBoeuf col parallelo accrescimento delle qualità combattive delle quattordicenne Mattie, la soppressione di alcune divagazioni con l'enfatizzazione della sfacchinata di Cogburn nel finale) e occasionali proiezioni del vivido realismo letterario in parentesi surreali (l'apparizione dell'indiano che si accaparra il cadavere dell'impiccato, l'atmosfera allucinatoria del "galoppo notturno"). Tenuta ferma l'impronta soggettiva del racconto (assicurata dalla voce over di Mattie nel prologo e nell'epilogo), la coenizzazione del romanzo si è infiltrata a tutti i livelli, corrodendo lentamente il carattere esemplare della narrazione portisiana: i personaggi adulti sono stati cosparsi di connotazioni puerili che sfociano apertamente in idiozia (il testa a testa tra LaBoeuf e la banda di Lucky Ned Pepper, tanto per dire), la violenza ha assunto i contorni della truculenza improvvisa (il duplice omicidio nel capanno) e, soprattutto, il progetto vendicativo di Mattie è stato ipotecato dal dubbio (il cadavere di Chaney non viene mostrato e nei deliri dell'avvelenamento la stessa Mattie farnetica di una fuga dell'assassino del padre). In tipico Coen-style, l'intenzione del personaggio che organizza e pianifica è stata sabotata dall'imponderabilità del caso (il groviglio di serpenti, emblema del caos in agguato).
Tuttavia il tratto più marcatamente e causticamente cinematografico di True Grit risiede nelle numerose soggettive che sfrecciano dagli occhi di Mattie: se la priorità del suo punto di vista traduce e conferma lo status di io narrante della ragazzina, il suo sguardo è listato a lutto dall'inizio alla fine. Tra il prologo sul corpo del padre senza vita e l'epilogo sulla lapide di Cogburn, le soggettive di Mattie rappresentano vere e proprie immagini di morte. La triplice impiccagione a Fort Smith, le salme nell'impresa di pompe funebri, i quattro cadaveri insepolti addossati al capanno, lo scheletro nella caverna, Lucky Ned e soci abbattuti da Cogburn e LaBoeuf: gli occhi di Mattie non fanno che registrare la morte al lavoro, tramutando l'eroina del romanzo in figura necrofora, letteralmente portatrice di morte.
A fianco dell'esordiente e sorprendente Hailee Steinfeld nei panni della quattordicenne Mattie, protagonista indiscussa e speroni guadagnati sul campo, si esibiscono un mastodontico Jeff Bridges (ovviamente "Il Grinta") e un volitivo Matt Damon (LaBoeuf) in prestazioni rigorosamente sopra le righe (wacky, "eccentriche, strambe", per usare uno degli aggettivi preferiti dei Coen). E se Josh Brolin regala al personaggio di Tom Chaney sfumature spassosamente infantili, è Barry Pepper nel ruolo del semiomonimo Lucky Ned che sfodera l'interpretazione più incisiva: aggressiva, ripugnante, ma anche capace di comunicare limpidamente rispetto davanti alla schiettezza della ragazzina presa in ostaggio. Carter Burwell sciorina un commento musicale memore, questo sì, delle sonorità bernsteiniane del film di Hathaway e Deakins si sbizzarisce nell'illuminazione dei notturni, contribuendo sensibilmente alla riuscita del pezzo di bravura della pellicola: la galoppata di Cogburn e Mattie sotto l'imponente firmamento. Coen maggiore? Indubbiamente no. Cionondimeno non un Coen minore.