TRAMA
Nick va a vivere a West Egg, accanto alla villa sfarzosa del ricco e misterioso Jay Gatsby, che è follemente innamorato di una donna perduta anni prima.
RECENSIONI
La parola all'Accusa
Prendete E. L. Mencken,
uno degli intellettuali più influenti nell’America del primo Novecento. All’uscita de Il grande Gatsby Mencken scrive sul Baltimore Evening Sun che “la storia [...] non è importante” e che si tratta del “vecchio motivo di un amore romantico e inverosimile”. Fitzgerald, secondo Mencken, si ferma sulla superficie, senza andare sotto la pelle dei personaggi. Non ha tutti i torti, Mencken: due mogli, due amanti, una passione quasi soprannaturale, due omicidi, un suicidio: tutto in duecento pagine. Mencken lo dice anche a Fitzgerald in una lettera privata: la storia è banale, ha il sapore dell’“aneddoto”. Ma Fitzgerald, scrivendo all’amico Edmund Wilson, si lamenta: “lo dice perché si è dimenticato della sua ammirazione per Conrad”. Anche Fitzgerald, in effetti, non ha tutti i torti: l’intreccio è semplice, forse anche banale, ma nasconde una tragedia dal sapore lieve e moderno. Gatsby è l’emblema dell’ottimismo americano e il suo fallimento è il fallimento della “second chance”, del miraggio dell’ascesa sociale, della promessa di successo per chi ha talento. In ogni caso, la forza del romanzo è altrove. Innanzitutto, nella sua leggerezza. Lo sa anche Mencken, che è entusiasta dello stile di Fitzgerald. Sempre sul Baltimore Evening Sun: “Quel che dà lustro alla storia” scrive Mencken “è qualcosa di piuttosto diverso dall’organizzazione dell’azione o dalla gestione dei personaggi; è il fascino e la bellezza della scrittura. [...] L’espressione ovvia semplicemente non è contemplata. Le frasi scorrono in modo levigato, frizzante e variegato. C’è la prova a ogni riga di uno sforzo duro e intelligente. [...] L’autore ha scritto, stracciato, riscritto e stracciato nuovamente. Ci sono pagine concepite con così grande perizia che nessuno può pensare che siano improvvisate più di quanto possa essere improvvisata una fuga musicale. Sono piene di piccole delicatezze, fascinosi giri di frase, penetranti ripensamenti”. Ecco dov’è la grandezza de Il grande Gatsby : un suono e un ritmo incredibili, giocati sulla sottrazione, la stringatezza, il non-detto, la discrezione intelligente di un testimone che (come osserva Tommaso Pincio nella postfazione alla sua recente traduzione per Minimum Fax) appartiene al mondo dei nati ricchi (come Daisy e Tom), ma capisce e ammira il “talento per la speranza” del parvenu Jay Gatsby, pur essendo consapevole del fallimento che lo attende. L’economia stilistica – elisioni, sottrazioni, reticenze e ancora sottrazioni – è il modo discreto con cui Nick Carraway penetra nel mondo grandioso e luccicante di Gatsby. C’è un’angolatura speciale nel punto di vista di Carraway come narratore: il suo sguardo è estraneo, educato, elegante, leggero, ma empatico. Il resoconto di Nick Carraway ha un timbro unico: intelligente ma sobrio, estraneo ma comprensivo, distante ma incuriosito, leggero ma malinconico. Lo sfavillante mondo di Gatsby è domato e dissezionato con curiosità e levità dallo sguardo pacato di Carraway. Quello che ci resta del grande Jay non è la girandola luccicosa delle sue feste, ma la malinconia del suo fallimento.
Prendete, adesso, Mark Anthony Luhrmann,
detto Baz, e osservate da vicino quel che ha da dire il suo Gatsby. Sin da subito, lo spirito di Nick Carraway è profanato. Il narratore di Fitzgerald è semplicemente ripudiato: al suo posto troviamo un Nick Carraway sfatto e alcolizzato, rinchiuso in una clinica di lusso, costretto dal suo psichiatra a mettere per iscritto le sue memorie. Il Carraway di Luhrmann ruba qualcosa dalla biografia dello stesso Scott Fitzgerald (l’alcolismo) e si libera con assurda noncuranza dell’anima del narratore che conoscevamo. Il celebre incipit del romanzo è dapprima ricalcato pedissequamente, poi stravolto in funzione di un’invenzione (l’alcolismo) che nel giro di qualche scena è gettata nel dimenticatoio. Il Carraway di Fitzgerald esordisce con un manifesto etico che diventerà un manifesto estetico: il padre gli ha insegnato a non giudicare gli altri. Il Carraway di Luhrmann, invece, ricorda solo le grandi bevute che si è fatto in quegli anni. E del resto, come dargli torto? Le feste di Gatsby immaginate da Fitzgerald erano nulla in confronto a quelle organizzate da Luhrmann con la gang di pop star da lui assoldata. Questa è roba grossa, altro che Età del Jazz. Le feste di Jay Gatsby sono, per Luhrmann, un turbinio carnevalesco: cubiste scosciate, animatori, DJ, coriandoli, balli di gruppo, piume, urla, fuochi d’artificio, nani, ballerine. È un villaggio vacanze di Formentera con pasticche gratis per tutti. Se hai un talento (il circo, in questo caso) è bene metterlo a frutto: e la sensazione alla fine del film è che Luhrmann abbia accettato l’ingaggio solo per via delle feste sfarzose. Avrebbe voluto, forse, che tutto il plot fosse una faccenda di feste e messinscene, come il fortunato Moulin Rouge, ma ha dovuto far spazio anche al resto della storia. A quel punto, però, lo spirito di Gatsby è già evaporato a colpi di hip hop, luci strobo e volume sparato: al posto della leggera malinconia di Fitzgerald c’è un martellante mal di testa per la troppa vodka e un rombo alle orecchie per l’improvviso silenzio. Finite le feste, Baz non sa che pesci prendere, s’allunga troppo, ritrova qualche brivido da luna park nel rombo e nelle corse delle automobili (è un tipo fortunato, Luhrmann, nel romanzo c’erano anche quelle), ma il ritmo s’affloscia. Diciamoci la verità: se non ci fosse Di Caprio non ne staremmo neppure parlando. Lui sembra l’unico vero sopravvissuto del romanzo di Fitzgerald, l’unico erede dello spirito del proprio personaggio. Gli altri, disorientati, si esercitano con le poche espressioni del viso che riescono a produrre e sperano che gli effetti speciali e Beyoncé li tolgano presto dall’imbarazzo.
C’è un grosso conflitto,
e Luhrmann lo sa, tra il testo letterario e il suo film. Ogni adattamento che non sia piatto o sciocco deve cercare quel conflitto e affrontarlo, in un modo o nell’altro. Ma Luhrmann non lo fa. In apparenza si mostra coraggioso, affrontando un tale mostro sacro delle Lettere Americane a colpi di Jay Z e carrellate chilometriche à la Google Street View. Audace, originale, inventivo – direte voi. Ma se guardate bene vi accorgete che in realtà Baz mena il can per l’aia e non scioglie la questione. Alla fine chiude la baracca (o il baraccone) senza aver deciso che farne davvero, di questo Gatsby. Il wrestling col testo di Fitzgerald comincia da subito quando l’incipit viene prima citato paro paro e poi annegato nell’alcol. Carraway è il narratore, ma a solo scopo terapeutico. Lo psichiatra pacioso gli consiglia di scrivere un diario, che poi diventa un dattiloscritto, che poi diventa un romanzo – addirittura “Il grande Gatsby”, per l’appunto. Ma nel frattempo abbiamo dimenticato che si trattava di una terapia medica: il pacioso dottore è sparito. A un certo punto lo vediamo mentre annaffia i fiori, ma poi non se ne sa più nulla. Il racconto, quindi, è prima un ricordo orale, poi un ricordo che si fa romanzo e poi infine addirittura scrittura fisica: lettere e frasi che vagolano per lo schermo in cerca d’affetto. Il romanzo e la pagina scritta incombono sul film con fare minaccioso. L’atto stilistico audace (ma in realtà solo tamarro) svela la sua codardia e cerca il conforto e il perdono del Libro. Excusatio non petita, probabilmente: l’allegra brigata di Luhrmann sa di aver buttato in caciara un testo tutto basato sulle sottigliezze.
Un film è sempre un film
anche quando è l'adattamento di un romanzo, e non dovrebbe giudicarsi sulla scorta del testo adattato ma solo sui suoi propri pregi e difetti. E Il grande Gatsby ha qualche pregio, in quella sua grandiosità spettacolare: la bellissima entrata in scena di Daisy (fedelissima a Fitzgerald, soprattutto lo svolazzo delle tende), la valle delle ceneri, la scena in cui Gatsby mostra a Daisy le sue camicie (e la sua vera anima, in realtà) facendole volare per la stanza (scena di nuovo fedelissima, eccetto che per il lettone al posto del tavolo), l'epilogo in cui Carraway si aggira per le rovine della casa di Gatsby (questa è un'invenzione originale, l'unica buona). In questi casi, il film di Luhrmann trova delle ottime soluzioni visive per le scene scritte da Fitzgerald oppure dà vita a nuove scene che rendono bene lo spirito del testo adattato. In altri casi invece (la maggior parte, purtroppo) Luhrmann scassa il testo con la mole elefantiaca della sua indole circense. Cito solo una scena, la prima visita all'appartamento dell'amante di Tom a New York: un trionfo di piccole sottigliezze si trasforma in un'orgia pacchiana. Si potrebbe quasi dire che Luhrmann fa bene quando s'industria ad adattare il libro in cinema (anche quando lo fa, com'è suo stile, con misura eccessiva e sopra le righe - come nella scena delle tende svolazzanti o nelle pirotecniche vedute aeree che misurano il desiderio di Gatsby per Daisy e la distanza di lei da lui). Fa male, invece, quando invece di adattare il romanzo, prova ad adattarsi a esso: ad adattare, cioè, alle scene pensate da Fitzgerald, il suo ingombrante kitsch. Luhrmann coglie qualcosa di importante di Jay Gatsby - il cattivo gusto del neoricco e il 'futuro orgiastico' in cui Gatsby credeva e che Nick e gli altri, al momento dei fatti, non avevano capito. Ma è proprio questo scarto, questo 'non aver capito', questo delicatissimo fallimento, che Luhrmann non coglie o forse non riesce a rendere. Lui ha fretta di sventagliare tutto davanti agli occhi dello spettatore: orge, luci verdi, sfarzo sgargiante - e tralascia l'incantesimo di quella storia. Alla fine cosa resta? Se non avete mai letto Il grande Gatsby o non siete legati alla piccola magia della sua prosa, il film di Luhrmann probabilmente sarà un piccolo boh, uno spettacolo dapprima sbrilluccicante, poi noiosetto, nel complesso dimenticabile. Se avete caro il Nick Carraway di Scott Fitzgerald e l''essenzialità radicale' della sua prosa (come scrive Sara Antonelli), l'inutilità dell'adattamento di Luhrmann vi sembrerà mastodontica e la distanza tra il regista e il testo da lui corteggiato sarà pari a quella tra Jay e la luce verde al di là della baia. Nel finale, quello svolazzare di lettere e parole vi farà venire in mente un solo consiglio: lasciate stare Jay Gatsby nel mondo al quale appartiene, la pagina scritta.

La parola alla Difesa
Comincerei proprio dallo script:
la sceneggiatura di Luhrmann e Pearce giustifica la voce fuori campo - elemento francamente insopprimibile per una riduzione di un siffatto romanzo - attraverso il flusso di coscienza di Nick consegnato a un analista sotto forma di racconto libero prima, di componimento scritto poi e di vero e proprio romanzo infine, un’idea che funziona non solo perché riconduce, senza forzature, il film alla novella e al suo autore (il narratore è in treatment per insonnia e alcolismo, segnali, con altri, di una tendenza autodistruttiva che ci conducono dritti a Fitzgerald), ma soprattutto perché rende perfettamente il senso della storia come vertigine di mitizzazioni. Se Gatsby, infatti, è senz’altro esistito, non è esistito un Grande Gatsby, vale a dire il personaggio per come ci viene descritto, figura idealizzata da Nick, idealizzazione che si alimenta man mano che la narrazione procede. Gatsby è un ambizioso parvenu, un nouveau riche che gestisce un racket, un bugiardo patentato che, nella mente del narratore - lo scrittore frustrato costretto a lavorare a Wall Street; lo sfigato che non vive la vita ma che si limita a osservarla (l’analista gli chiede, sottolineandolo, di “descrivere” quello che è accaduto); colui che è dentro e fuori alla narrazione esattamente come è dentro e fuori dall’esistenza; il voyeur che non fa all’amore con la bella Jordan, facendosi mille scrupoli e nascondendo dietro di essi la sua impotenza (vivendi, prima che coeundi) - riflette le sue incapacità e le annichilisce nella figura volitiva, romantica, straordinaria di Gatsby, nel monumento che decide di erigergli, affermandolo come figura leggendaria non potendo farlo con se stesso. Con quello scritto si celebrano, insomma, le gesta di un uomo che Nick pretende fortissimamente essere un eroe e il cui ricordo vuole tramandare (a se stesso, in primis) come tale. Ecco perché quel gesto finale, quell’aggiunta al titolo attribuito al romanzo (Gatsby): il The Great scritto a penna diventa simbolo immediato; opera una palese, forzata epicizzazione; rende l’uomo, a tutti gli effetti, una leggenda (e rende l’illusione-Jay una Grande Illusione).
La prima mitizzazione ne comporta e include un'altra,
quella che Gatsby fa di Daisy: Gatsby è un mito anche perché, da creatura romantica quale la si descrive, idealizza Daisy e persegue - in nome di lei, di quello che significa per lui - lo scopo di averla accanto a sé a qualunque costo. Gatsby è Grande, insomma, quanto lo è il suo sogno d’amore. Come Jay per Nick, anche Daisy non esiste per come l’uomo se la rappresenta; egli nega, da innamorato, la mediocre realtà della donna e la immagina quale non è: una creatura angelica che lo ha sempre amato, che è pronta a seguirlo ovunque, che, dopo l’evento chiave dell’incidente, gli telefonerà sicuramente, quando invece è chiaro a chiunque che non lo farà, che, da fanciulla viziata e organica al meccanismo sociale al quale appartiene, se la batterà pensando al suo tornaconto, figlia degna di quella classe che oggi non sopporterebbe nessuno scandalo e ieri non approvava le nozze con un uomo privo di mezzi. Daisy non è affatto abbagliata da Jay, ma solo da quello che è riuscito ad accumulare (Sono triste perché non ho mai visto delle camicie così belle), illusione gemella, luce verde lontana carica di promesse e il cui fascino si dissolve una volta annullata la distanza. E Gatsby l’ha mitizzata consapevolmente: sapendo che non avrebbe avuto la donna se non da ricco, una volta ottenuti i mezzi, ha costruito un mondo di apparenze plasmandolo a immagine e somiglianza della Daisy reale; si è consacrato alle velleità di una classe, alle celebrità-richiamo, a una mondanità fasulla alla quale non crede, solo per attirarla in quel mondo e averla di nuovo. Lui vuole il Sogno, ma usa una strategia realistica per ottenerlo. Per questo il suo disegno è destinato al fallimento. Questa premessa per dire che quello di The Great Gatsby, giocando su questa spirale di autosuggestioni, si rivela un adattamento ingegnoso, niente affatto banale o prevedibile, interessante per come prospetta la questione della fedeltà alla traccia romanzesca. E Luhrmann di tale riduzione fa uso adeguato, piegandola alla sua idea di film neoclassico, perseguita già col precedente, bellissimo Australia.
E dato che di mitizzazioni si va parlando,
come in Australia (con Nicole Kidman/ Vivien Leigh e Hugh Jackman/ Clark Gable), Luhrmann associa alla mitologia del personaggio quella dell’attore chiamato a interpretarlo, elemento irrinunciabile per far quadrare l’operazione: come nel romanzo, l’attesa della discesa in campo del protagonista è palpabile, la primissima parte del film divenendo - le chiacchiere che lo riguardano, la più volte paventata apparizione - un vero e proprio hype. Il modo in cui Luhrmann risolve il nodo - coerentemente con le modalità descritte dal libro, tra l’altro - è una dichiarazione di intenti: l’apparizione del protagonista è uno sfavillante spot interno al film, una sorta di turning point rimarcato, enfatizzato, direi glorificato da un’inquadratura in ralenti, con un primo piano patinatissimo, in un tripudio di fuochi d’artificio sullo sfondo. E’ il finale di Un Commercial Lungo Un Prologo quello in cui Jay Gatsby leva la coppa: egli brinda non tanto a Nick, ma allo spettatore, fino a quel momento in trepida attesa. C’è ironia, c’è divertimento, certo, ma c’è anche una delle allusioni più chiare al carattere del film: il suo essere hollywoodiano nel senso primario del termine, quindi un prodotto glamour in cui è lo star system a parlare attraverso le immagini, in cui il divo è l’oggetto del desiderio, l’elemento iconico centrale, non il semplice interprete del personaggio. In quell’inquadratura c’è l’irruzione di Gatsby nel film, certo, ma c’è anche (soprattutto?) quella di Leonardo Di Caprio. Cose così, signori miei, oggi non le fa più nessuno e, di conseguenza, pare che nessuno ne colga lo spirito. Quale? Ma quello di celebrare la Dream Factory in maniera non indiretta, ma spudorata e testuale, come si faceva nella golden age. Questo intento è parte organica dell’operazione Gatsby: trascurarlo, dimenticarsene, significa, fondamentalmente, non comprenderne il senso, al di là del gradimento o meno del film.
E a questo punto va dato atto a Luhrmann
che avrebbe potuto continuare sul solco tracciato da Romeo+Juliet e, soprattutto, Moulin Rouge che rimane il simbolo di un modo di intendere il cinema di un intero decennio, film che ha annullato la pregnanza di ogni giudizio - capolavoro o bufala - affermandosi come opera in cui l’esperienza personale dello spettatore contava più di qualsiasi valutazione. Sintesi di linguaggi, commistione di registri, caciara organizzata o organizzazione incasinata, Moulin Rouge è stato l’esempio più rappresentativo del cinema programmaticamente postmoderno, quello che Recupera, Cita, Fagocita & Mescola: film che ibridando i mezzi apriva la via al trionfo dell’apparenza datata, della cosciente caducità del prodotto, all’accumulo per l’accumulo, in cui la digitalizzazione prendeva il sopravvento su quello che si rappresentava, in cui il Vero e il Falso giocavano a rincorrersi, in cui l’eccesso (a ogni livello, non solo scenografico) diventava cifra. Con Moulin Rouge gli anni zero hanno fatto i conti. Ma, appunto, Luhrmann avrebbe potuto proseguire su quellla strada e campare di rendita. Invece ha fatto Australia, coraggioso kolo(nial/)ssal di oggi alla vecchia maniera, ma in piena coscienza: ritorno alle proprie radici, ViacolVento ancestrale, mélo atavico, inno antropologico - a tratti fordiano - al Nuovissimo Continente a cui il regista dona quello che non ha mai avuto: un’epopea cinematografica di lusso primevo. Il suo miglior film. The Great Gatsby riparte da lì e ci restituisce, al pari del suo predecessore, allora, un’idea di cinema che sembrava definitivamente tramontata. Dove lo si trova oggi un film come questo, un monstre che ostenta grandeur produttiva, magniloquenza scenografica, lusso sfrenato di costumi, ariosi gesti registici, virtuosismo barocco (non mancano le girandole a cui il cineasta ci ha abituato, con ampio uso di grafica computerizzata) piegando uno del classici della letteratura americana alle sue proprie logiche, non sminuendolo, ma anzi celebrandolo, semplificandolo e problematizzandolo ad un tempo, (melo)drammatizzandolo e interrogando, per affrontarlo, la storia del cinema senza alcuna spocchia, ma con sano (finalmente) gusto citazionista? Ve lo dico io dove: da nessuna altra parte, persa com’è, l’industria americana, tra due eccessi: prodotti miliardari finalizzati (e dunque standardizzati e chiusi) e derive autoriali dell’insopportabile indie. In mezzo stando l’abbondante resto. Ci voleva un australiano con un sogno grandioso (Hollywood, the way we were) per tornare a quella idea di cinema e riuscire a (re)realizzarla.
E allora ben venga la rappresentazione di uno sfarzo narcisistico e sprezzante,
onanistico e arrogante, proprio di un’economia di squali e profittatori che vive il vergognoso fasto della diseguaglianza, alla vigilia della Grande Crisi del 1929. Stavolta Luhrmann non ha davvero bisogno di verniciare di attualità la traccia d’epoca: in questa storia parla dei nostri tempi, ché la prima parte di questo film, così consegnata alla forma e al numero sfolgorante, dà conto di quel vuoto feroce, della futilità, dello squallore lussureggiante di un mondo fatto di mollezze e abitato da ultraprivilegiati all’alba del crollo; un mondo fatuo e luccicante che, facendo mostra di sé nel deserto circostante della miseria, dice continuamente Contemporaneità; un mondo che si riflette in quello che Gatsby, come si diceva, ha costruito per la donna che vuole riconquistare, monumento pacchiano alla sua nevrosi amorosa. E ben venga la rapsodica presenza di Daisy la cui figura, lasciata ai margini (con perfetta scelta attoriale, l’avvenenza dimessa di Carey Mulligan, e non una prevedibile “bellissima”), è una delle migliori trovate delle sceneggiatura: siamo sempre perfettamente coscienti della levatura del personaggio e dell’abbaglio consapevole di Gatsby che la riguarda. E ben venga il sorriso stolido di Tobey Maguire (mai così in parte) di fronte a tanto sfavillare effimero, ben venga la rivelazione Elizabeth Debicki (Jordan), l'unica che si muove sorniona nella Grande deboscia. E naturalmente ben venga a mostrare lo sfarfallìo di luci e ombre del protagonista, lui, Di Caprio, il miglior attore americano da un bel pezzo. Luhrmann gestisce tutto alla sua maniera, ma senza inani manierismi, inciampando solo di rado in qualche sbavatura, con una seconda parte in cui dimostra di saper giocare coi registri magnificamente: dal delizioso momento commedia (la sequenza del tè ha lo smalto dei brillanti RKO) alle poderose parti drammatiche (il grande teatro si inscena al Plaza e ci ricorda che il regista, quando vuole, sa andar giù di pathos - si ricordi la grande scena della morte di Giulietta in R+J, con un Di Caprio che ci spremeva il cuore -). Anche i segnali della tradizione sono sì marcati, ma molto ben contestualizzati, soprattutto quel Daisy sussurrato da Gatsby morente (la scena dell’omicidio: la migliore del film) che è puro Rosebud, con tutto il portato wellesiano che si trascina dietro (la villa-castello che è un nuovo ritorno a Xanadu eccetera eccetera, senza arrivare a Welles primo vero regi-star, figura, quest’ultima, cui Luhrmann fa la corte da sempre). Una nota sulle musiche: l'autore ha più volte sostenuto che l’utilizzo di standard contemporanei all’interno di film cronologicamente lontani da essi era pratica di anacronismo in voga proprio nell’epoca d’oro del cinema; in questo senso l’utilizzo di canzoni di Jay-Z, Kanye West (hip hop che è musica nera come lo era prevalentemente quella di allora), Lana Del Rey e compagnia cantando (per non parlare di tutte le altre arie, dissimulate dalla verniciatura jazz dell’orchestra di Bryan Ferry) sono ulteriori tasselli del mosaico neoclassico che va a comporre.
Perché se il passato non si può ripetere, inventarselo ex novo è certamente possibile.

Lo stile sta fra la trilogia del “red curtain” (Moulin Rouge, in particolare) e Australia: Baz Luhrmann non rischia più come ai tempi dell’altra pellicola in cui ospitava Leonardo Di Caprio (ottima la sua prova), Romeo + Giulietta. La prima parte sfrutta egregiamente il 3D (superfluo, invece, in seguito) con incessanti voli ad uccello sulla baia e addentrandosi nei sontuosi party di Gatsby, ricchi di figuranti e costumi pittoreschi (opera di Catherine Martin, moglie del regista, e di Miuccia Prada, mischiando moda passata e presente), e riporta il musical negli occhi del regista che, suo marchio di fabbrica, non si cura della fedeltà al tempo storico cavalcando, anche, brani musicali remixati in salsa moderna pop-soul e rap (Jay-Z fra i produttori esecutivi). Funziona il raccontare che adotta il punto di vista dello scrittore nella finzione interpretato da Tobey Maguire: lo spettatore ne condivide la meraviglia con mistero su Gatsby all’inizio e, poi, il dramma d’amore, per cui il personaggio diventa “grande”, più che per la gestione corrotta degli affari, per il suo sogno romantico incorruttibile. Si rientra, ad un certo punto, nelle maglie standardizzate di una pellicola vecchio stile, come faceva Australia, ma la drammaturgia strega, coinvolge e non dimentica di mostrare l’altro volto di un’epoca in cui il benessere degli Stati Uniti permetteva sogni in grande (per Luhrmann, il romanzo di Scott Fitzgerald è l’Amleto americano), ovvero la miseria e il contraddittorio fra nobiltà d’animo e nobiltà di natali. Rispetto alla nota versione di Jack Clayton con Robert Redford (1974), quella di Luhrmann è meno ingessata e letteraria ma anche, tutto sommato, di minor eleganza e fascino.
