TRAMA
William Tell, un ex militare che vive come giocatore d’azzardo professionista, attira l’interesse di una misteriosa finanziatrice. La vita ordinaria di Tell viene però sconvolta dall’incontro con Kirk, un giovane in cerca di vendetta contro un nemico comune.
RECENSIONI
Dopo la fuggevole incursione bergmaniana di First Reformed, Paul Schrader è tornato al progetto della maggior parte dei suoi film da quarant’anni a questa parte: fare incrociare Ozu e Bresson. Se l’ennesimo rifacimento di Pickpocket del finale non è una sorpresa, è inedito il richiamo già sui titoli di testa ai fili intrecciati in tessuto (qui: il verde di un tavolo da gioco) di tanti opening credits del giapponese.
In mezzo, un aggiornamento di American Gigolo ai tempi dell’algoritmo. Se Richard Gere era un dandy obbligato a farsi santo da una società più dandy di lui perché interamente votata all’immagine integralmente superficiale, qualcosa di molto simile vale per un pettinatissimo Oscar Isaac – il quale tuttavia è fin dall’inizio santo e dandy in egual misura. La nuova vita di William Tell, dopo anni di carcere scontati in vece dei propri superiori che ad Abu Ghraib lo obbligarono a diventare feroce torturatore, è scandita da ripetitivi rituali ossessivi (tipo: coprire con lenzuola i mobili di ogni stanza in cui si trova a stare) contratti in carcere, attraverso cui si autoincatena a un’esistenza in cui la forma, e solo la forma, è l’unica sostanza, e le elegantissime sfumature di grigio, prive di colori, sono l’unica divisa che è opportuno indossare. Questo autoannullamento, del resto, lo aiuta da un lato a non dare nell’occhio, condizione essenziale per poter sbancare, come lui, i tavoli verdi senza farsi cacciare e cambiando casinò quasi ogni giorno; dall’altro, a raggiungere un’ascesi quasi talare che rinsalda la sua convinzione di aver raggiunto, avendo ormai espiato quello che doveva espiare, una sorta di condizione postuma per cui può guardare solo retrospettivamente ai drammi, alla violenza e ai conflitti intrinseci all’esistenza. La vecchia vita è passata, e la nuova è una sorta di volontaria non-vita. Come ne Il trascendente nel cinema, che Schrader diede alle stampe prima di diventare regista, la trascendenza è la sospensione della dimensione narrativa (la vita, il movimento, il cambiamento, il conflitto), sostituita da un formalismo per così dire “orizzontale”.
Il mondo di William Tell, però, non è più il mondo dell’immagine (gli incipienti, stilosi anni Ottanta di American Gigolo). È il mondo dell’algoritmo. Un mondo in cui la forma vuota del quantitativo impone alla totalità dell’esistente un’identificabilità spionistico-poliziesca universale; una “società del controllo” che Schrader sottolinea come sorta direttamente dalle ceneri della war on terror: John Gordo, superiore di Tell ad Abu Ghraib, finirà infatti per riciclarsi nel settore della sorveglianza automatizzata. Per sopravvivere nel mondo dell’algoritmo, Tell diventa un algoritmo: per vincere, deve tenere d’occhio e sottoporre a istantanee statistiche mentali tutte le carte giocate da banco e avversari, nessuna esclusa. Forma vuota è l’algoritmo, forma vuota è quella dandy-pretesca a cui Tell ha votato la sua vita.
Ma può l’ascesi di Tell fermarsi a una connivenza mimetica con un sistema che non si può battere ma col quale è fin troppo facile allearsi strategicamente, come qualsiasi scemo (nel film: Mister U.S.A.) riesce a fare senza sforzi? Certo che no. Ecco dunque che il giovane Cirk (figlio di un militare che ebbe la vita rovinata da Abu Ghraib, pure lui per colpa di Gordo) fornisce l’occasione giusta affinché il formalismo esistenziale di Tell possa perfezionarsi. Fallito il tentativo di dissuadere le smanie di vendetta violenta di Cirk, al fine di estendere anche a lui il suo satori, la sospensione dei conflitti (e dunque di ogni orizzonte narrativo) in cui lui grigiamente si bea, Tell finisce per vedere in Cirk il contenuto con cui la forma vuota deve identificarsi per essere veramente trascendente. Se si rifiuta il mondo non lo si trascende davvero, perché si rimane attaccati alla paura del mondo (o al suo disprezzo). Capire questo vuol dire, per Tell, sospendere la sospensione narrativa cui si era votato fin lì, dunque sospendere (sottraendosi alla sfida con Mister U.S.A.) il confronto mimetico con quell’altra forma vuota che è l’algoritmo. Non è più da lì, in definitiva, che passa la via dell’ascesi: a una forma troppo vuota non può che mancare qualcosa, dunque essa si tiene ancora al di qua della perfezione. Identificandosi Tell non più con il distacco siderale antinarrativo della sua vita postuma, ma con il segno ipernarrativo della vendetta di Cirk (e che comunque riguarda anche lui), lo zen ozuiano, portata all’estremo l’astrazione ascetica, si ribalta in incarnazione bressoniana, in un transfer/imitatio Christi simile a quello visto in First Reformed.
Ma laddove quest’ultimo risolveva il conflitto tra forma e narrazione alla Un condannato a morte è fuggito, ovvero sminuzzando le componenti dell’azione, concentrandosi su ogni punto della pur inarrestabile progressione narrativa fino a farci perdere di vista la linea che essi presi insieme dovrebbero comporre, in questo film (che potrebbe del resto chiamarsi Un condannato a vivere è rientrato) la linea viene negata facendo seguire ad ogni punto un altro che non lo segue rettilineamente, ma in qualche altro punto contiguo dello spazio a 360°, di modo che non sappiamo mai veramente (fino al climax finale) quale traiettoria stiamo percorrendo. Da ciò, la strana atmosfera allo stesso tempo narrativa e antinarrativa in cui galleggia Il collezionista di carte fino al momento in cui le cose precipitano. All’arrivo di quello, il film ha già avuto modo di chiarire al di là di ogni dubbio che a essere in questione non è la morale (di cui i preti dandy schraderiani si strafregrano), e neppure un qualche commentario sociopolitico, ma un discorso esclusivamente formale, come richiedono personaggi che hanno ridotto qualunque sostanza alla sola forma.
Tale discorso, in ultima analisi, consiste in un ribaltamento delle premesse strutturali della forma vuota algoritmica che domina il presente. Laddove questa si fonda sulla separazione di ogni contenuto dalla forma (“il problema non erano le mele marce, ma la cesta”, dice Cirk riferendosi ai torturatori di Abu Ghraib, e a come i “quadri” dirigenziali tra essi l’hanno fatta franca pur essendo i maggiori responsabili), il film è disseminato di indizi che suggeriscono, invece, una topologia escheriana in cui il dentro e il fuori si scambiano di posto, invertendo così anche il modo in cui forma e contenuto si rapportano. L’ultima inquadratura visualizza tale inversione financo didascalicamente – ma non dimentichiamo che tutto il finale si lega non solo simmetricamente all’incipit carcerario, ma anche alla scena nel bel mezzo del film in cui il medesimo carcere è visto dal di fuori. Il dentro, insomma, incornicia il fuori, e non viceversa. Insieme alla sua manager LaLinda, a un certo punto Tell visita un parco popolato da migliaia di led luminosi, a comporre figure tridimensionali inesistenti se non come puntini da unire gestalticamente da parte di un soggetto percipiente che tuttavia a queste figure non sta davanti, ma dentro e in movimento. Quando Tell si reca da Gordo, seguiamo la sua macchina in autostrada, finché uno stacco non ci fa seguire invece la macchina di Gordo che parcheggia a casa propria, nella quale entra per trovare Tell che ha fatto irruzione nel frattempo; ciò che non vediamo, pur al netto della continuità del movimento delle due auto che prosegue a propria volta con l’ingresso di Gordo, è appunto precisamente il momento in cui da fuori Tell entra dentro: di nuovo, il rapporto dentro-fuori è interamente pervertito.
Gli esempi potrebbero continuare: per numero ed importanza, costituiscono per davvero l’anima del film, sbilanciata sulla forma contro la narrazione in ottemperanza al formalismo del protagonista. Se l’oggi si lascia definire attraverso la forma vuota algoritmica che separa da sé ogni contenuto, il terreno su cui ingaggiare una battaglia squisitamente teologica per l’esistenza è quella della forma. È su questo terreno che Tell ha ingaggiato la propria battaglia con se stesso, in seguito alla quale ha capito che poteva essere forma vuota solo identificandosi con Cirk e col suo progetto. La forma di vita capace di sfuggire all’egemonia della forma vuota separata da ogni contenuto sarà quella che ne invertirà le premesse strutturali, riannodando forma e contenuto in un’interdipendenza escheriana rispetto a cui dentro e fuori risultano indeterminabili.