
TRAMA
La storia di un’ossessione tra una giovane donna tormentata e il terrificante vampiro che si innamora di lei, con tutto l’orrore che diffonderà al suo passaggio.
RECENSIONI
Nota preliminare: scrivo queste righe la mattina del 4 gennaio 2025, a distanza di 3 giorni dalla visione di Nosferatu. Una buona critica dovrebbe ambire in un certo senso a essere fuori dal cronotopo, valida – almeno nella sua sostanza – oggi come fra vent’anni. Non dovrebbe dunque contenere riferimenti al tempo e al luogo della visione. D’altro canto questa precisazione, che inserisco volutamente a margine, mi si rende necessaria, ed è già parte del commento al film: viviamo in un tempo di esperienze frammentate, e in cui il film in quanto film è solo una piccola parte di quella cosa più larga e proteiforme che chiamiamo cinema. Il film di Eggers, uscito l’1 gennaio dell’anno corrente, non è dunque solo un film uscito l’1 gennaio; è un film lungamente chiacchierato prima, e violentemente “criticato” immediatamente dopo, attorno a cui un’intera mitologia “preventiva” era già stata edificata. Un film “divisivo”, direbbero alcuni, in qualche modo abbracciando la retorica contemporanea per la quale i film che ti piacciono o non ti piacciono dicono di te se sei degno o no (di fare parte di una cerchia di eletti, di essere considerato un soggetto interessante, e via discorrendo). Ecco, questa forma di “neo-cinefilia”, foraggiata dall’attuale conformazione della mediasfera post-social, che vive e fa profitto generando conflitto e tensione, è proprio quella che (mio modestissimo avviso) andrebbe evitata. A farne le spese in questi giorni è il film di Eggers, vieppiù costantemente “semplificato” (è un film femminista e allora non va bene; è un film manierista e allora fa schifo; è un film megalomane e allora vaffanculo), ma domani sarà il turno di qualcos’altro.
Partiamo dunque dall’ultima parentesi: Nosferatu è un film femminista, manierista, megalomane. Questo è vero. Femminista perché – ed era anche ora – la prospettiva e il fulcro sono tutti negli occhi e nel corpo posseduto di Ellen Hunter, strega contemporanea (pur nella cornice di un goticismo splendido) tormentata e tormentante. Manierista perché sì, dai, ci sono effettivamente momenti in cui Eggers esercita il suo muscolo in maniera particolarmente vistosa, flexa diremmo oggi, e devi un pochino scegliere se farti andare bene le sue vanterie o se invece derubricarle a formalismo fine a se stesso, tipo il bambino che nella sua giostra da 50 milioni di dollari ti saluta con la manina per dirti “mamma guarda quanto sono bravo!”. Megalomane come diretta conseguenza dell’ultimo punto, aggiungendovi lo stigma dell’andare a toccare un doppio mostro sacro (doppio perché è il vampiro, soggetto rischiosissimo e decadente da quando è nato, ma soprattutto perché è Nosferatu, quello di Murnau e di Herzog, come dicono più o meno tutti in questi giorni, o di Murnau-Herzog). E qui, a dispetto della comune e facilona tendenza allo sguardo comparatistico, ci sentiremmo di sostenere che benedette siano le mani che profanano la sacralità, e che fortunatamente ancora non esiste la polizia della blasfemia filologica, che ti arresta se hai deciso di partire da un soggetto famoso per poi metterci del tuo. Il postmoderno non può andarci bene a targhe alterne, a piacimento dei nostri volubili umori. Peraltro Eggers in buona sostanza, almeno mi pare, mette le mani nell’altrui pasta con un certo rispetto, e semmai l’accusa di megalomania può darsi nella misura in cui fa quello che ci si aspetterebbe: l’omaggio del giovane talento, dell’enfant un po’ prodige un po’ terrible, ai grandi Maestri. Troppo giovane? Ancora imberbe? Ha fatto il passo più lungo della gamba come Ari Aster con Beau ha paura (il riferimento non è peregrino; i due coabitano a braccetto la sfera discorsiva dei talenti “emergenti”)? E intanto lui l’ha fatto lo stesso, e dall’1 gennaio 2025 Nosferatu non è più quello di Murnau e di Herzog, ma è quello di Murnau e di Herzog e di Eggers, o, meglio, di Murnau-Herzog-Eggers.
Ed è un Nosferatu, da un punto di vista critico che finge di essere oggettivo, teso fra il magnificente (raro aggettivo) e il magniloquente (peccato perdonabile), con una prima parte di puro godimento e una seconda in certi momenti claudicante. Un Nosferatu coraggioso nel suo ballare ruvidamente fra il classico e lo stravolto, con un Conte Orlok (il chiacchieratissimo Bill Skarsgård) la cui eleganza atavica è sostituita da una asperità sovietica – memorabile baffone compreso. Un Nosferatu in cui si segnalano un paio di momenti di immenso cinema (l’arrivo al castello di Thomas Hunter, un Nicholas Hoult dimesso e fragilino che già si era confrontato con Dracula nel divertente Renfield, Chris McKay 2023; la scena di sesso in stile L’esorcista fra Ellen e Thomas; il quadro finale ripreso in zenitale di Nosferatu che muore sulla sua amata). Anche forse un Nosferatu imperfetto – ma aspetto ancora la lista dei film perfetti – nell’indulgere nei jumpscare (in un montaggio a tratti piacevolmente inconsueto) e, soprattutto, nell’utilizzo nei panni del Prof. Von Franz di un grande Willem Dafoe, che paga oramai lo scotto della sua iperesposta onnipresenza e di un volto il cui carico extradiegetico inizia a farsi pesante (guardi Nosferatu e pensi a Povere creature!, dove peraltro interpreta ancora lo scienziato pazzo, e questo è un problema).
Eggers così si gioca l'asso di bastoni, disorientandoci ancora una volta. Ci obbliga a sparigliare le carte, uscendo dai facili schematismi e dalle aspettative internettiane, che stravolge programmaticamente: chi cerca i primordi di The VVitch non troverà quell’acume sottrattivo che tanto ci colpì; eppure pulsano nel petto di Nosferatu, vampirizzati e così sussunti, i predecessori: di The VVitch permane quello sguardo incantato nei confronti del mistero femminile, di The Lighthouse la magnifica disperazione di fondo, che permea anche fotograficamente l'intera ontologia di un’immagine perennemente obitoriale, e di The Northman il senso di un’epica contemporanea cioè castrata, repressa, condannata a un'eterna, asfittica e dunque fascinosa marcescenza. Solo che Nosferatu è qualcosa di più, è Gestalt, non solo semplice somma dei suoi precedenti ma al contempo loro sintesi e tradimento.
Alcuni dicono un capolavoro, altri una sòla. Io lascio al film, consapevolmente controverso, il tempo di decantare, ma mi è trasparente al di là di ogni ragionevole dubbio estetico un dato: già le vedo le impietose frotte di studenti che mi chiederanno allo sfinimento una tesi sul Nostro a paragone con Murnau ed Herzog.
Nosferatu di Eggers è già storia del cinema.

Il mio problema col cinema di Eggers è che non ci vedo una vera, propria idea di cinema e il cinema senza idee (di cinema) mi arriva inerte, piatto, (non) morto. O meglio: un’idea iniziale a volte sembra anche esserci solo che poi, in corso d’opera la tradisce (o se la dimentica): in The VVITCH si tratta di streghe in un contesto folk di cinema elegante e minimalista, horror-non-horror, come a insinuare che in realtà si sta parlando d’altro. Ma no, bando alle ambiguità, si sta(va) parlando proprio di streghe, giusto facendo cadere la cosa un po’ dall’alto. The Lighthouse era un pretenziosissimo (sì, ho usato quell’aggettivo lì) pasticcio che pescava a casaccio nella storia del cinema – Murnau, Dreyer, Welles – e della letteratura - Poe, Lovecraft, Coleridge, Melville, Sarah Orne Jewtt – per dire un niente sospeso tra la l’horror concettuale, la Grande Metafora di nonsisacosa e l’esercizi(ett)o di stile(mi). Speravo in The Northman, ossia nella normalizzazione di un (presunto) talento che magari, costretto nella gabbia di un film più convenzionale, poteva solo affiorare e risultare così più efficace perché assunto nelle dosi giuste, ma anche lì, alla fine risultava “un film troppo poco autoriale per essere un film d’autore, [che] si sporca troppo poco le mani con la grandeur per diventare la versione arty di Braveheart o Il Gladiatore ed è troppo diseguale e confuso per profilarsi come quello che, probabilmente, vorrebbe essere, ossia una compenetrazione tra due modi diversi di intendere e fare cinema” (citarsi addosso).
Partivo prevenuto? Ci sta. Sembra ieri ma ormai sono 10 anni – ossia dal suo primo film - che ne parlo come di un bluff. Però, davvero, anche questo Nosferatu, cos’è? Sulla carta un’operazione filologica sospesa tra l’ossequio e l’autoaffermazione (come scrive giustamente Bruno Surace, “dall’1 gennaio 2025 Nosferatu non è più quello di Murnau e di Herzog, ma è quello di Murnau e di Herzog e di Eggers, o, meglio, di Murnau-Herzog-Eggers”), contro la quale operazione non ho ovviamente niente di preconcettuale, diciamo. Non ho niente contro i filologi e non ho niente contro i megalomani. Poi però c’è il film che, al solito, io fatico ad apprezzare (parlo del buon vecchio “piacere della visione”) e del quale fatico e cogliere il senso. Sostanziale e sostanzialmente fedele remake del film di Murnau, con ovvii riferimenti a quello di Herzog (si veda l’accento sulla componente erotico/sessuale, qui aggiornata con la donna soggetto desiderante e non solo oggetto desiderato), privo di una sua personalità specifica (si alternano cifre arty e jumpscare da Blumhouse senza soluzione di continuità), popolato di personaggi anonimi e male interpretati, narrativamente inconsistente (la seconda parte specialmente, diciamolo, è un noioso, sfilacciato disastro) che pretende di reggersi sulle citazioni letterali, su qualche trovata visiva (la copia conforme della spiaggia cimiteriale, il viaggio di Hutter, la morte “sessuale” del vampiro) e su una generica eleganza. Che però si scontrano con le, anch’esse consuete, incursioni nel ridicolo non-si-capisce-quanto-involontario (il personaggio/macchietta di Dafoe) e con una assenza totale di tono e di registro che disorienta, purtroppo non in senso buono. Volendo riassumere sommariamente, e provvisoriamente chiudere, direi che Eggers sembra sapere, più o meno, come vuole (vorrebbe?) dire le cose ma non sa realmente cosa vuole dire né perché.
