TRAMA
L’anziano Gebo svolge l’attività di contabile per mantenere la sua famiglia. Vive con la moglie Doroteia e la nuora Sofia in condizione di povertà, ma la loro preoccupazione principale è un’altra: l’ombra del figlio João, che si è allontanato da casa e ha scelto la strada dell’illegalità. Un giorno João ritorna.
RECENSIONI
Era il film più libero dell’ultimo decennio Lo strano caso di Angelica: quella “ghost love story”, fantasmatica e molto sottovalutata, prevedeva addirittura una riscrittura filologica degli effetti speciali inizio ‘900, rievocazione del cinema/lanterna magica che, in un sublime fuori luogo, veniva trasportato e reinstallato nel contemporaneo. Come per antitesi, Manoel de Oliveira rovescia la prospettiva in Gebo e l’ombra, che segna il ritorno alla teatralità diretta e frontale per il cineasta lusitano: se si esclude il prologo sono 5-6 inquadrature a camera fissa (con alcuni impercettibili cambi nei punti di visione), un paio di campo/controcampo nei dialoghi corali tra i personaggi e una sortita all’esterno. Ambienti prosciugati e pochi oggetti di scena che risultato reiterati (il caffè, le tazzine, il gomitolo). Il trentaseiesimo lungometraggio del regista, nella più peculiare impostazione deoliveiriana, ricama una rete di analogie con la recente produzione degli anni zero: per esempio, l’assoluta centralità del parlato è quella di Parole e utopia; le figure riflesse nei vetri e “raddoppiate” dal riverbero sulle superfici ricordano Ritorno a casa; ancora i personaggi che guardano in camera e quindi verso lo spettatore, ma obliquamente e “non esattamente”, ripetono Leonor Silveira in Singolarità di una ragazza bionda (la quale ha una scena simile); il finale, l’inquadratura congelata sul volto di Lonsdale forma un ideale dittico con lo sconcerto di Malkovich in Un film parlato e allo stesso modo dona nuovo senso a ciò che abbiamo visto. La pellicola più vicina resta comunque A Caixa del 1994, citata dallo stesso regista, l’altro “film sulla povertà” di de Oliveira con cui condivide una cassetta come contenitore del denaro.
“Il dovere di un uomo è quello di essere giusto e onesto o provare ad arricchirsi?”. Oltre le assonanze interne di una filmografia, è il quesito pronunciato da Gebo a risultare centrale nella pièce di Raul Brandão datata 1923. L’anziano contabile Gebo (Michael Lonsdale) lavora con i numeri ma non riesce a “conteggiare” la realtà, anzi matematicamente la occulta, nascondendo ai propri famigliari il destino compromesso e la deriva illegale del figlio João (Ricardo Trêpa). Paradossalmente (ma non troppo) per un film del portoghese, all’inizio il protagonista non parla: “Ti dobbiamo strappare le parole di bocca”, si lamenta la moglie Doroteia (Claudia Cardinale). Gebo non vuole dire: dall’incipit i personaggi parlano ma non comunicano, rimandano il discorso, dicono il nulla, il linguaggio viene esercitato formalmente ma in realtà si incarta nella sostanza, va verso il vuoto espressivo. D’altronde non si parla di un personaggio ma di uno spettro, “ho visto solo un’ombra” specifica Gebo. A invertire la rotta interviene l’ingresso di João nell’abitazione: preceduto proprio dalla sua ombra (come nella prima scena l’ombra lo accompagna fuori campo), l’arrivo è l’occasione per innescare un incontro/confronto/scontro dialettico tra due concezioni diverse e inconciliabili. Da una parte la famiglia che ha sempre lavorato, in povertà e umiltà, dall’altra il figlio che coltiva la chimera del guadagno facile, vero e proprio lato oscuro del nucleo (“Mi trasformo quando arriva la notte”). Ma la divisione è tutt’altro che schematica: Doroteia accusa il marito di restare nella mediocrità, João si concede un’ammissione di amore alla madre, che sotterraneamente lo sostiene nella deviata impostazione ideologica/esistenziale. La “scatola magica” dei soldi ammalia la figura di Candidinha (nome antifrastico di un’amabile Jeanne Moreau), che la scruta e la accarezza, configurandola come scrigno delle meraviglie irraggiungibile per gli uomini (“Qui dentro c’è tutto”). A meno di non considerare l’azione criminale.
Centrale in Gebo e l’ombra è il dato cimiteriale. Il regista percorre le pieghe di un testo saturo di riferimenti tombali: è notte e fa freddo nei punti focali, il buio prevale sempre sulla luce affidata a lumicini, Candidinha anticipa i particolari della propria sepoltura e viene da tutti approvata. La stessa entrata di João ha il sapore sepolcrale di un “ritorno dalla morte”, alla quale comunque il giovane sembra idealmente destinato; Gebo chino sui libri è chiaramente immagine prossima alla dissoluzione. “Voi siete già sepolti”, chiosa per tutti João. Senza dimenticare che in questo scenario anche l’esercizio dell’arte suona impossibile: la “morte dell’arte” è decretata dal personaggio di Chamiço (Luìs Miguel Cintra) quando, in un eloquente dialogo di sintesi, sottolinea l’inattuabilità dello spettacolo oggi (“Perché non fate una rappresentazione notturna?”, si informa Gebo: si torna alle tenebre). In uno sguardo metaforico lanciato verso l’aldilà, l’invenzione drammaturgica del regista è sempre più protesa a evocare ciò che viene dopo, si rivolge gradualmente dall’altra parte della barricata, come sempre lasciandone insoluto il mistero. L’uomo e la morte sono come il gatto e l’uccellino in gabbia ne Lo strano caso di Angelica: il gatto vuole mangiarlo ma non lo raggiunge, l’uno guarda l’altro ma c’è una distanza, l’uno ambisce all’altro ma non può toccarlo, il segreto resta. Privilegiando l’aspetto squisitamente drammatico, tuttavia, anche qui il regista cammina su un doppio binario: seppure elargita col contagocce, irrinunciabile è l’ironia deoliveiriana sulle relazioni umane e la loro deformazione paradossale e grottesca, come Chamiço che “deturpa” il salotto domestico bevendo il caffè direttamente dal piattino.
Ma è solo teatro filmato questo film? Niente affatto. L'equivoco di una mera registrazione cinematografica del meccanismo teatrale, abbaglio tipico con de Oliveira, è subito smentito dalla prima scena 'alla Murnau', inizio espressionista in cui le mani di Ricardo Trêpa rilucono nel buio. Subito dopo, per giunta, vediamo un uomo che accende il lume del lampione, gesto subitaneamente ripetuto in piccolo da Claudia Cardinale all'interno della casa: si accendono le luci, si apre la rappresentazione. Indizio caratteristico nell'universo di segni riconoscibili del cineasta, l'inizio lucernale è presagio dello sviluppo e serve e fare chiarezza: il gioco di luci è fisiologicamente impossibile da ricreare su palcoscenico perché, semplicemente, l'illuminazione ottenuta è la combinazione tra punti di luce diegetici e posizionamento della macchina da presa. E' però un'altra scena a fugare ogni dubbio: Sofia esce alla ricerca del marito, si lancia nella fuga prospettiva di un vicolo e scompare alla vista, poi torna verso di noi, si ferma a guardare una statua della Madonna sorridendo, quindi rientra in casa. Infine un ubriaco attraversa il campo barcollando. Nel semplice e spiazzante accostamento sacro/profano, sconcertante è la capacità sintetica, capacità che - anche stavolta - risulta eminentemente cinematografica. Per il regista la pellicola è sempre luogo della parola, ma non parola filmata: piuttosto 'film della parola', in quanto la costruzione dell'inquadratura e il concepimento del quadro visivo vengono prima dell'essenziale linea dialogica. Anche Gebo e l'ombra non è dunque liquidabile nella restrittiva categoria dell'oggetto teatrale: frequenta il teatro, certo, ma proprio per questo gli stralci cinematografici raddoppiano incidenza e valore assoluto.
Nuova parabola morale (e per rovescio anche immorale), ancora una volta il film dellautore nato nel 1908 si colloca lontano dall'oggi: nella recitazione antinaturalistica degli attori, nel disegno delle coordinate ambientali è sempre contrario alle aspettative del concreto, ennesimo capitolo di un mundo à parte coerentemente fuori tempo. E' uno dei cinema più estremi e coraggiosi che sia dato vedere, quello generato da de Oliveira, dove la bolla astorica del racconto ribadisce la sua radicalità intransigente. Eppure allo stesso tempo, narrando la malia del denaro, resta calato nel contemporaneo, si offre come narratore ostinatamente ancorato al reale. 'Nei miei film sembra che non succeda niente, ma nel frattempo le cose fondamentali succedono. Come spiegare la vita? La vita non ha spiegazione, si dispiega' (Manoel de Oliveira).

De Oliveira s’ispira liberamente ad una pièce teatrale di Raul Brandão risalente al 1923, riproponendo un cinema da proscenio in cui la recitazione (anche) teatrale degli attori (dando voce ai loro pensieri, facendoli dialogare con gli sguardi rivolti verso il vuoto) è, come sempre, solo in apparenza teatro filmato. A dimostrarlo basterebbero la prima, magistrale scena, dove Leonor Silveira esce di casa ma la macchina da presa preserva la sua soggettiva alla finestra, facendole incontrare se stessa mentre Claudia Cardinale, con cui stava interagendo, è riflessa sul vetro; oppure la scena alla M di Fritz Lang, espressionista nel gioco di ombre e nel dettaglio delle mani assassine. In seguito il regista “si siede”, posiziona la camera fissa in una stanza, davanti ad un tavolo, e osserva i personaggi conversare, per replicare espressivamente la posizione “esistenziale” di una famiglia (che il figliol prodigo contesterà) imprigionata nella monotonia. Si è subito incuriositi dalla contrapposizione di caratteri fra un meraviglioso Michael Lonsdale, che mente per il bene della moglie, parla sottovoce ma urla dentro di sé, è talmente onesto da rimanere povero nel nome del dovere, e la moglie di Claudia Cardinale (meno convincente la sua prova), oltremodo lamentosa, ripetitiva in argomenti e richieste (e il film ne soffre), sempre pronta a denigrare il marito e adulare, vivendo di illusioni, il figlio scomparso. Molto bello anche il discorso simbolico sull’ombra: quella del figlio, intravista, emblematica. Il “teatro cinematografico” di De Oliveira, per quanto faticoso e spossante, è magnetico nell’assumere un punto di vista stimolante nei suoi felicemente ambigui apologhi morali: in questo caso, però, il testo di base non viene in aiuto con la propria profondità di pensiero, l’entrata in scena del figlio con figura troppo sopra le righe (quasi in territori horror: teme la notte perché “Hyde” si impossessa di lui) mal serve la dialettica fra due concezioni di vita, il discorso pare sfuggire di mano all’autore e l’enigmaticità della parte finale non è feconda.
