Drammatico, Recensione

GALANTUOMINI

TRAMA

Salento, fine anni ’60: durante la raccolta del tabacco i giovanissimi Lucia, Fabio e Ignazio confabulano di rapimenti di bambini e si precipitano a liberare il piccolo Antonio, secondo Lucia tenuto prigioniero da un loro compaesano. Di Antonio nessuna traccia, ma durante la fuga Lucia ne approfitta per baciare furtivamente lo spaesato Ignazio. Salento, primi anni ’90: Lucia è diventata il braccio destro di Carmine Zà, uno dei boss della Sacra Corona Unita, Fabio è diventato un tossico che si rifornisce di eroina da Infantino, proprietario del bar del paese e padre del figlio di Lucia, e Ignazio è un giudice recentemente trasferito a Lecce dopo una lunga permanenza a Milano. Le vicende dei tre vecchi amici sono destinate a ritrovarsi: Fabio muore a causa di una dose di roba tagliata male e l’inchiesta viene affidata proprio a Ignazio, che tornando in paese incontrerà di nuovo la mai dimenticata Lucia…

RECENSIONI

Ancora una volta Edoardo Winspeare gioca di sponda col cinema di genere per parlare del solo argomento che sembra stargli veramente a cuore: il territorio. Quattro film all’attivo, il cineasta di Depressa di Tricase ha iniziato il suo scavo antropologico con Pizzicata (1995), piccolo film autoctono e dialettale profondamente conficcato nel suolo salentino, continuando a riflettere sul rapporto tra radici arcaiche e modernità omologante nelle due pellicole successive: Sangue vivo (2000) e Il miracolo (2003). Lasciando da parte Pizzicata, la cui natura di film pervicacemente indipendente sconsiglia l’assimilazione agli altri titoli, Galantuomini conclude un’ideale “trilogia dello sradicamento” consacrata all’osservazione, mediata dal ricorso ai generi, del dileguare delle tradizioni sotto i poderosi colpi della modernità. Se Sangue vivo rappresentava fisicamente e simbolicamente il doloroso scollamento tra presente e passato (la tossicodipendenza come allontanamento dal tamburello per Donato, il senso di colpa di Pino per aver lasciato cadere il padre nel pozzo) e Il miracolo raccontava il riaffacciarsi delle credenze ancestrali sotto forma di illusione rapacemente omologata dalla società dello spettacolo (i giornalisti televisivi che vogliono riprendere il tutto con immagini quasi astratte), Galantuomini mette in scena il definitivo divorzio tra memoria comunitaria (il prologo durante la lavorazione delle foglie di tabacco) e individualismo contemporaneo (le vite irriducibilmente divergenti dei tre vecchi amici). Altalenando tra noir e mélo, Winspeare descrive la vicenda di Lucia (Donatella Finocchiaro in un ruolo non privo di consonanze con l’Angela di Roberta Torre), soggetto che si barcamena tra malavita organizzata (Sacra Corona Unita), attività di copertura (rappresentante di profumi), ruolo di madre senza un compagno affidabile (Infantino, il padre di suo figlio, è un cocainomane all’ultimo stadio) e donna che incontra dopo venti anni la passione dell’infanzia, quell’Ignazio (Fabrizio Gifuni) che faceva trio fisso insieme a lei e al vulnerabile Fabio (Lamberto Probo, già protagonista col vizio dell’eroina in Sangue vivo). Spentosi Fabio per un buco di roba tagliata male, Lucia e Ignazio si ritrovano faccia a faccia e il desiderio inespresso si fa urgenza bruciante, soprattutto per lui, interferendo con gli obblighi professionali (l’inchiesta sulla morte di Fabio). Su questo crinale noir/mélo si innesta la tematica squisitamente winspeariana: il soffocamento delle tradizioni affossate dall’avvento di istituzioni centralizzate (legali o illegali è questione affatto secondaria). Organizzazione a carattere regionale, la Sacra Corona Unita tende ad aggregare - arbitrariamente e sotto la mutevole insegna del profitto - baresi, salentini e pugliesi tutti, cancellando le differenze in nome del profitto, sacrificando le identità sull’altare dell’economia. Naturale dunque che le simpatie di Winspeare vadano al rusticissimo Barabba (Marcello Prayer), emblema di una criminalità coi piedi per terra (anzi nell’acqua, dal momento che è visivamente associato al mare), parlante rigoroso dialetto salentino e assennatamente privo di mire espansionistiche. Sarà lui, durante il giuramento di fedeltà di Infantino (Giuseppe Fiorello), a sfasciare il televisore che trasmette un futile programma di intrattenimento (proprio come ne Il miracolo la presenza televisiva disturba la serietà del rito). Ma se la costellazione di segnali deterritorializzanti è cospicua e non invasiva (l’acquisto delle armi nel Montenegro, la partenza del figlio di Lucia per la Svizzera, la vetrina dell’agenzia di viaggi a Lecce), è la staffetta dei generi che lascia alquanto a desiderare: sufficientemente resistente nell’impianto mélo (grazie alla carnosa femminilità di Donatella Finocchiaro), Galantuomini si sfilaccia vistosamente nell’intelaiatura noir, affastellando episodi di pedestre schematicità (l’escalation di violenza tra la banda di Zio Za’ e quella di Barabba), lacunoso ritmo action (l’inseguimento e la cattura di Claudio) e imbarazzanti psicologismi (la sequenza della nuvola “gatto-barca-nuvola”). Nuocciono non poco al film, infine, le interpretazioni di Fabrizio Gifuni e Giuseppe Fiorello: sfacciatamente compiaciuta la prima (in alcuni momenti si avverte un autocompiacimento davvero allarmante) e clamorosamente caricaturale la seconda (con quel quid di impostato che alza costantemente di un’ottava la nota recitativa). L’improvviso rallentamento del sottofinale (che frequenta sospese atmosfere Kammerspiel) e la conclusiva deriva peripatetica (dall’acre retrogusto ameliano) sbilanciano ulteriormente un film riuscito nella disseminazione della tematica di fondo, ma visibilmente impacciato nella modulazione dei generi. Sequenza da dimenticare: il trip mortale di Fabio con tanto di fotografia desaturata e immaginario surreal-felliniano. Sequenza da salvare: l’imboscata alla carovana di Za’ in piena campagna.

Il Salento tanto amato (e cantato) da Winspeare è stato anche teatro, negli anni novanta, di fatti sanguinosi: il nostro regista più magico/terragno/sanguigno/salentino, allora, si confronta per la prima volta con una storia criminale, per quanto la devianza l’abbia sfiorata anche nelle opere precedenti, cosiccome il tema del legame oltre la legalità (vedi Il Miracolo). Tralascia quegli stilemi lirico/magici che lo hanno sempre contraddistinto, ma preserva quello sguardo talentuoso nel fotografare una terra bellissima, i moti umani, gli sguardi, le musiche e i corpi evocativi/intensi, personaggi credibili (qualche riserva solo per il “boss” di Donatella Finocchiaro: bravissima, resa benissimo, ma sopra le righe come figura “macha” con maschi maschilisti al seguito). Le tracce più di genere sono probabilmente dovute all’inedito ausilio alla sceneggiatura di Andrea Piva, fratello del regista barese Alessandro (Lacapagira), ma la resa della storia d’amore così composita, generosa, sapida è tutta farina del sacco di Winspeare.