TRAMA
La notte tra il 21 e il 22 luglio 2001, a Genova, durante il G8, in una scuola che ospita manifestanti (e non): le barbarie della polizia ai danni di civili.
RECENSIONI
Satura una lacuna, Diaz. Dando forma violenta alla violenza perpetrata nelle aule della scuola genovese dalla Polizia (di Stato, locuzione da non dimenticare, mai), rappresentando un fatto non visto, solo testimoniato da sangue e parole, ferite e verbali, paradosso invisibile in quel tripudio di visibilità, in quell'evento dai mille, milioni di occhi elettronici: il G8 di Genova. Un momento centrale nella creazione di un nuovo rapporto tra Grande Evento e Nuovi (democratici e personali) Media, in cui la moltitudine di verità postate su Internet, gli squarci di realtà registrati da videocamere, macchine fotografiche, telefoni cellulari disseminati ovunque, resistono molteplici alla riduzione dei Media di (Controllo di) Massa, la Tv, soprattutto, la voce e il punto di vista del padrone. Il rapporto Uno/Molti vs Molti/Molti. Non che sia stato solo questo, il G8 di Genova. Tutt'altro. Ma qui discutiamo di cinema ovvero di economia dell'immaginario, rappresentazione e testimonianza, memoria e rapporti di potere. E dunque: Diaz mostra quel che mai era stato mostrato, cura una ferita, un'omissione dell'immaginario collettivo. E lo fa con la dovuta brutalità, facendo del tragico macello l'asfissiante, claustrofobico incubo centripeto a cui ogni elemento inevitabilmente tende e ritorna, cinema a mano armata che cerca il senso del passato nell'attualità ferina della sensazione, optando per l'immersione violenta dello spettatore, puntando a imporre uno sdegno che sia, prima di tutto, disgusto. Perché l'inferno di Bolzaneto è prossimo a quello di Salò, perché non servono metafore e metonimie, per raccontare dell'agire aberrante del Potere sui corpi. Perché è nella messa in crisi dello spettatore che lo spettacolo (anche, soprattutto nel senso deteriore del termine) sa farsi coscienza.
È nella pornografia di quelle scene, nel disagio di quella rappresentazione, di quella vampirizzazione spettacolare e (decenni fa avremmo detto) amorale, che Diaz sconvolge, sono evidentemente lì la sua urgenza e la sua necessità, in quelle immagini che scorticano il silenzio, in quei minuti lunghissimi che non possono che provocare, indurre a ricercare, a riformulare memoria, esimendosi il film dal farla pedantemente. Perché sì, ha ragione Agnoletto, Vicari non contestualizza e perciò non fa memoria: Vicari la esige dal senno di poi di un'esperienza scioccante, ponendo oltre i margini i perché, affinché li si cerchi, affinché di ricercarli non si finisca mai. E sì, ha torto Agnoletto, non si fanno nomi: ma ciò serve a serbare l'universalità del racconto, la colpa diffusa e non fossilizzata nella determinazione dei colpevoli (oltre che, cerchiobottisticamente, italicamente, alla sopravvivenza politica - all'esistenza? - di un'opera come questa). Il resto è corollario arrancante, a certificare, come aveva fatto Il passato è una terra straniera, che l'unico lato fertile del cinema di Vicari è quello oscuro, non compromissorio: Diaz mutua la sua struttura da Elephant, da Polytechnique, elude protagonismi, frammenta il racconto per preservare la complessità (anche linguistica) del reale ma poi la perde nella serrata esattezza - figlia della serialità - di ogni tassello, mima consapevolmente il profluvio di prospettive nel ricorso a immagini d'archivio, mentre ricorre a scelte facili e ingenue di retorica affettiva, a effettismi da drammaturgia televisiva, mentre si finge asciutto, e non lo è. Ma - tristemente e fortunatamente - i suoi meriti, così come quelli del complementare Acab, così come quelli di Romanzo di una strage, sono altri. E non sono pochi, signora mia, in un Paese, in un cinema come il nostro (?).