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TRAMA
Abe è un adolescente prossimo all’età di mezzo. Vive con i genitori, lavora con il padre, desidera l’amore. Lo trova (in una forma eccentrica) in Miranda. La sua vita è prossima a cambiare. Radicalmente.
RECENSIONI
Niente stupri, niente incesti, niente omicidi. Nulla oltre la legge, nulla (troppo) al di là dei canoni. Solondz, con Dark Horse, tace quegli eccessi con cui il microcosmo messo in scena urlava il proprio male, annulla le forme di sfogo efferate, i gesti/sublimazione violenti. Qui Solondz, a livello narrativo, trattiene. E quel dolore si estrinseca diversamente. Qui, per la prima volta si confronta con il proprio tempo cinematografico: i limiti entro cui si pone sono quelli della commedia tardo adolescenziale contemporanea, quella del Re Mida restauratore Apatow, quella delle strazianti figurine arty di Wes Anderson, della poetica bassomimetica di Kevin Smith e via elencando. Fuori forma, obeso, ossessionato da feticci infantili, inadeguato alla realtà che lo circonda, il protagonista di Dark Horse si inserisce nel circolo tracciato dal cinema statunitense contemporaneo. Scene da sit com perversa (in luoghi che Solondz reitera di film in film), abitate da stereotipi caricati sino al grottesco (come i genitori, statue di cera di un museo pop dell’orrore medio-borghese): la maniera di Solondz affronta il pattern eterno Peter Pan e non può che eccederlo. In Dark Horse, però, si lavora frontalmente sull’immaginario, coltivando quel côtè fantasmatico che nel corso della filmografia dell’autore si è via via fatto più invadente e che qui si sovrappone alla (presunta) realtà, si confonde con essa, la eleva a una vaga indeterminatezza. Sogno e realtà si intrecciano e fanno ombra l’uno all’altra, e non potrebbe essere altrimenti: Abe, il protagonista, vive di proiezioni, è il cavallo scommessa che arranca per soddisfare le attese, anche se sono aspettative che appartengono più agli automatismi della macchina sociale che al cuore degli individui. La sua corsa è ad ostacoli, ostacoli che sono in principio tutti personali, legati a quei limiti individuali e generazionali tipici del filone, e la mente di Abe li travalica dando vita a forme e figure, visualizzando un mondo possibile che restituisce un immaginario ristretto e risibile, borghese in tutto, anche nelle trasgressioni, comunque limitato, proiezione che apre prospettive solo oniriche e sancisce la chiusura ermetica di un immaginario.
Solondz dunque si immerge nell’universo mentale del suo protagonista (parte radicalizzata di un tutto che, lo ripetiamo, percorre il cinema statunitense d’oggi) e lo stilizza secondo poetica: ovvero irride e ama i freaks che lo abitano, con quella commistione complessa e consapevole di cinismo sardonico e dolente umanità, in un mix che se alterna l’intensità delle parti che lo compongono, da personaggio a personaggio, non lascia mai che una prevalichi interamente l’altra. Perché il vetriolo non potrà mai accanirsi eccessivamente contro individui così piccoli, vittime colpevoli di un destino che agisce comunque caustico e paradossale, come in un film dei fratelli Coen o di Woody Allen, come se ci pensasse già il mistero a dileggiare impietosamente l’uomo goffo, armato solo della sua mediocrità. Questa materializzazione della palude del sogno americano e del suo inevitabile smacco (così inevitabile da non pretendere slanci drammatici) non può esimersi da giocare con la banalità e lo stereotipo, ma solo certe sue prevedibilità di forma sono fisiologiche: altre, firme autoriali e accenti posticci sul dialogo, sono espedienti e freddure facili, frutto di una inventiva che appare più stanca, meccanica. La domanda idiota è: minore? La risposta è sì. Perché gioco mimetico con il cinema che lo circonda. E perché, semplicemente, effettivamente, sotto gli standard (altissimi) del suo autore.
Todd Solondz, grazie alle coccole di festival prestigiosi, si è ritagliato un notevole seguito di cinefili. Attraverso il suo humor caustico non cerca la battuta facile, ma irride, sbeffeggiandola, l’apparentemente serena way of life americana. Se Happiness riusciva a graffiare per il perfetto equilibrio tra grottesco, rabbia e ironia corrosiva, grazie anche alla solidità dell’impianto narrativo, nei film successivi il regista di Newark si è limitato a riciclarsi. Con Dark Horse, che sarebbe il cavallo su cui nessuno punta ma che si rivelerà invece un outsider, continua la parabola discendente. Il protagonista è un ragazzone che non si è mai realmente confrontato con la vita, a causa di una famiglia protettiva e di un carattere poco incline all’indipendenza. Quando una ragazza depressa accetta di sposarlo, le cose sembrano cambiare, ma sarà un successo di breve durata. Il film, scandito da gag dal sapore di sit-com, propone situazioni al limite del grottesco che non riescono mai a uscire dalla banalità: il ragazzone appassionato di action figure che litiga con il negoziante perché l’ultimo acquisto era graffiato, i siparietti con i genitori videodipendenti, l’inerzia in ufficio nella ditta di famiglia, le liti con il fratello socialmente ben visto. Il punto più basso sono però i confronti con la nuova fidanzata, inesperta di vita come lui ma depressa, a causa anche di una recitazione piuttosto incolore di Selma Blair, promessa star poi scomparsa dalla circolazione e già con Solondz nel migliore Storytelling, che si limita a vagare in stato catatonico. La vicenda scorre quindi senza inseguire la risata e irridendo i soliti riti della quiete borghese, ma le situazioni hanno il fiato corto e il ritmo non riesce mai a supplire alla mancanza di idee. A meno di non identificare come stile la svolta onirica che travolge il protagonista e si limita a confondere, senza che ne sia ben chiara la necessità, lo spettatore.