Drammatico, Sala

COPIA CONFORME

Titolo OriginaleCopie Conforme
NazioneItalia/Francia/Iran
Anno Produzione2010
Durata106'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Un saggista inglese, in Toscana per la presentazione di un suo saggio, incontra o rincontra una donna francese…

RECENSIONI

“Tanto lo so che quel James ti piace e che hai deciso di innamorarti di lui”.
Inizia il viaggio. I due sono sulla difensiva: lei a disagio nel ruolo (simulato?) dell’ammiratrice lievemente fanatica, lui perplesso e vagamente annoiato da quella donna che l’ha convinto (non si sa come) a trascorrere una giornata in sua compagnia. Frasi e gesti di circostanza, osservazioni “brillanti” (la barzelletta) e banali (“Vista stupenda”, ma la fotografia cinerea di Bigazzi smentisce sontuosamente lo stereotipo), educata ostilità e cerimoniosa incomprensione. Poi, un semplice, plausibile equivoco innesta un gioco di ruolo in cui la regia spetta alla donna: l’uomo non fa che adeguarvisi, con molta buona volontà ma anche una buona dose di goffaggine (speculare a quella della donna nelle prime sequenze del film). La seduzione, il travestimento, il sogno di lei (ne ignoriamo il nome) trova solo una pallida eco nei modi di volta in volta eccessivamente burberi e teneri del suo accompagnatore, impegnato, al ristorante, in una maldestra parodia volontaria dell’immagine del gentiluomo inglese. L’improvvisazione segue vie giustamente rapsodiche, con il girotondo delle lingue a ritmarne le fasi. Lei, intuendo l’incapacità del compagno di cogliere fino in fondo il senso e la direzione del gioco, è costretta ad attirarlo – letteralmente – nella camera d’albergo in cui tutto, qualunque cosa sia, è iniziato (la disposizione delle finestre rievoca il racconto – immaginato? simulato? - al bar). È qui che l’uomo assapora un attimo di solitudine e ricava da un’immagine riflessa (forse l’unica del film che sia interamente preclusa allo sguardo dello spettatore) una decisione che, qualunque sia, è destinata a segnare il futuro di due persone.
Kiarostami gioca con i luoghi comuni (in tutti i sensi: gira nel Chiantishire, sfondo cinematografico idilliaco per antonomasia, un film che è la negazione stessa del romanticismo deteriore, “da film”, appunto) e, quel che più conta, con l’immagine, moltiplicandone i livelli (da brivido la sequenza della piazza: in un totale apparentemente anodino, l’attenzione è focalizzata dallo specchietto retrovisore della moto, che racchiude il dialogo della donna con la coppia di turisti), sfruttando la profondità di campo, che, come in un quadro, si fa diacronica e allegorica (la felicità degli sposi novelli sullo sfondo, l’angoscia della sposa “in attesa” in primo piano, l’incertezza dei protagonisti in bilico fra i due stati), valorizzando, nei verbosi dialoghi, più la componente musicale di quella semantica. Esercizio di stile? Sia, ma condotto con rigore sovrano e amarissima ironia.


Dopo un lungo silenzio, interrotto soltanto da alcune interessanti parentesi documentarie (Shirin, già incentrato sugli effetti emozionali sprigionati da un’opera d’arte), Abbas Kiarostami si riavvicina alla fiction lontano dal suo paese natale. Copia conforme, coproduzione franco-italiana, girato a Lucignano, borgo della provincia di Arezzo, spiazza dopo (e per) aver urtato, strazia dopo (e per) aver lasciato indifferenti. Con una perizia e una purezza di sguardo quasi rinascimentali, l’autore de Il sapore della ciliegia si accosta al microcosmo piccolo borghese e intellettuale occidentale come un osservatore éloigné, distante dalla materia, dagli oggetti, dai discorsi e per questo in grado di rivelare, nel profluvio di  pistolotti da secondo anno di scuola di belle arti, la vacuità di ogni esternazione (e, più in generale, di ogni produzione intellettuale) che non sia seguita, e caricata di senso, di umanità (e di universalità), da un’investitura emozionale mediata dallo sguardo. La verità dell’oggetto d’arte, e di ogni riproduzione o rappresentazione, è infatti nell’occhio di chi guarda. Kiarostami perviene così a decodificare parole vacue attraverso immagini piene: primi piani rivelatori, specchi, riflessi, copie più vere degli originali. L’armamentario intellettuale, altrimenti supporto pedante e stantio (le copie sono spesso migliori degli originali et similia), funge piuttosto da scorza sociale introduttiva al seducente gioco di proiezioni e di scambi che vede coinvolta la coppia Juliette Binoche/William Shimell. Emerge progressivamente, in questo lento incedere scandito da parole in tre lingue (inglese, francese, italiano), con tutta la forza dirompente e destabilizzante di un rovesciamento destinato a far saltare il principio di identificazione (chi sono? Cosa fanno? Simulano?), il dolore causato da una o più assenze da colmare, da vuoti da saturare. Con copie più vere e autentiche degli originali, certo, ma anche con la ripetizione (e ritualizzazione) di gesti rievocanti una fugace e passata felicità (nella stanza d’albergo della prima notte di nozze, quindici anni dopo). Tramite la simulazione, affiora paradossalmente la verità dei soggetti (e delle/sulle relazioni amorose), assecondata da una forma spoglia, geometrica, impeccabile: “ritratti incrociati” (primi piani frontali), suggestioni simboliche (la proliferazione di banchetti nuziali e di sposine lacrimose), uno spazio diegetico strutturato in opposizioni binarie. Sullo sfondo, un grande referente, di cui il film di Kiarostami costituirebbe, appunto, la copia conforme: Viaggio in Italia di Roberto Rossellini. Come nel capolavoro rosselliniano, un dolore umanissimo (la solitudine, la fine di un amore) e un’esigenza profonda (il bisogno dell’altro) irradiano lo spazio geografico e culturale circostante; l’Arte s’incarica di eternizzare e universalizzare questo dolore. Un dolore conforme, un dolore con forma.