Miniserie, Netflix, Noir, Recensione, Thriller

COPENAGHEN COWBOY

TRAMA

La giovane Miu attraversa il minaccioso paesaggio degli inferi criminali di Copenhagen. Alla ricerca della giustizia e della vendetta, incontra la sua nemesi, Rakel…

RECENSIONI

C’è del marcio in Danimarca. È in Rossella, matrona albanese che aiuta il fratello Andre nella gestione di un bordello dove viene praticato ogni tipo di sopruso ai danni delle giovani prostitute, per lo più rifugiate illegali, e che spera di poter concepire un figlio nonostante l’età avanzata. È in Nicklas, Jack lo Squartatore 2.0, ariano, edonista, macho per dovere, represso dalle velleità di un padre egomaniaco, capace di parlare unicamente del pene del figlio. È nei mal di testa di Mr. Chiang, un boss mafioso che pare abbia rapito Ai, la figlia di Madre Hulda, proprietaria di un ristorante cinese, in modo da ricattarla e costringerla ad aiutarlo nello smaltimento dei cadaveri, dandoli in pasto ai suoi maiali.
C’è del marcio in Danimarca, quindi, ma uno spettro pronto a ripulire la città. Si chiama Miu. È una Madonna, è una puttana, un talismano, una spacciatrice, un alieno e una borsa da donna (il suo nome, spiega Refn, deriva infatti dalla linea di borse di Prada Miu Miu). È un contenitore vuoto, un ricettacolo di significati, una ragazza senza storia che dice di essere stata rapita dagli alieni quando aveva sette anni. E a guardare il suo volto, quello dell’attrice e ballerina Angela Bundalovic, con i suoi zigomi alti e lo sguardo magnetico, commiserevole e terrorizzato, quello di un bambino che assiste per la prima volta al dolore del mondo, e al contempo rigido, straniato, sembra davvero che sia così. Miu è probabilmente venuta dall’alto, tornata dal cielo, ma si muove orizzontalmente all’interno di una città fantasma e fallocentrica e superstiziosa, dove tutti la vogliono possedere, toccare, ammirare per paura, per speranza, per trovare redenzione. Dicono che porti fortuna, ma anche disgrazia. Proveranno a farne una prostituta, ma è una vergine immacolata. E allora Miu veste sangue e acqua, come l’altra grande vergine di Refn, la Jesse di The Neon Demon, faceva prima di lei, inscritta nelle sue pale d’altare triangolari di neon rosso o azzurro. Veniva mangiata, Jesse, e rigettata. Era un’ostia da consumare, un sacrificio necessario in un mondo di stregoni, sacerdotesse e ragazze disperate, una bellezza pura e passiva da vampirizzare e sacrificare sull’altare dell’eterna giovinezza, sotto il glitter hollywoodiano, le luci abbacinanti del mondo della moda.
Qui, invece, è la donna a decidere delle sorti del mondo. Miu perdona e Miu uccide, Miu ripara e Miu distrugge, tutto in quella Copenaghen a cui Refn guarda con stupore infantile e malinconia sin da Pusher – L’inizio, dove l’eterna lotta archetipale tra bene e male viene definitivamente sostituita da quella tra maschile e femminile. Perché di questo parla, in fondo, Copenhagen Cowboy, del maschile e del femminile che convivono in ogni personaggio e della rimozione sociale di quest’ultimo, della virilità ostentata da tutta quella serie di “eunuchi” che costellano il cinema di Refn (l’impotente Julian in Solo dio perdona, l’asessuato Driver di Drive) e che qui tornano, anche fattualmente, in una lunga serie di uomini goffi, soli, vecchi, repressi. Sono gangster al tramonto, mafiosi abbandonati, imprenditori incapaci di sniffare cocaina, uomini patetici, mammoni che paventano un’iper-virilità di facciata abbracciando un’estetica nazista, controllando o uccidendo le prostituite, fino a tentare di ricostruire il fallo di un figlio evirato più grande e vigoroso di prima.

“È da questa prospettiva che voglio creare una protesi per Nicklas. Se possiamo ricreare il pene, perché non farlo meglio? Più duro, più forte, più grande, più potente, più fantasioso”. Eccola la presa di consapevolezza di Nicolas Winding Refn, che vedrete annuire a queste parole in un cameo glorioso, pronunciate dal padre del killer dopo la sua evirazione. È la messa alla berlina del suo stesso cinema, costruito da sempre sullo scambio dei ruoli di potere tra uomini e donne, sulla difficoltà nel distinguere bene e male (sorride sornione, lui, nella conferenza stampa veneziana, quando gli chiedono se farà mai “protagonisti positivi”…) e, soprattutto, sull’analisi per immagini delle pulsioni antitetiche che lo animano, qui condensate in un atto muscolare, narcisista, “a tutto Refn”. Perché il regista si prende la totale libertà, se non di violentare le durate e la pazienza dello spettatore come nella precedente (e per certi versi ancora più audace) serie Too Old to Die Young, certamente di dare sfogo a tutti i suoi sogni cinematografici, di regista maturo e di padre: quello di rifare Terrore nello spazio di Mario Bava (si veda la sequenza finale della serie), di mettere la sua famiglia al lavoro con lui (al film hanno partecipato la figlia Lola come attrice e la moglie Liv Corfixen in veste di produttrice), e di ritornare sulla sua stessa carriera con occhi nuovi, osservandola dall’alto come un UFO, fondendo senza soluzione di continuità thriller, horror, fantascienza, fashion film.
Quello di Miu, oltre che un viaggio onirico, è infatti un atto di flânerie, una passeggiata casuale nei meandri del cinema di Refn, nelle sue ossessioni (i corpi degli attori e delle attrici con cui da sempre gioca come fossero robot e  bambole), nei suoi personaggi (torna Zlatko Burić nei panni di un gangster, come nella trilogia di Pusher) e nei suo generi e autori di riferimento, il tutto filtrato dalla capacità unica di saper lavorare attraverso forme essenziali, con un approccio minimale a scenografie, costumi e coreografie: una tuta acrilica diventa Fantascienza, un abito da sposa diventa Horror gotico nel cinema profondamente minimalista del cineasta danese, il vero e unico “cowboy di Copenaghen” a cui fa riferimento il titolo, oggi più surrealista che mai.


Siamo però lontanissimi – e lo siamo sempre stati – dal Lynch di cui molti si ostinano a considerarlo un epigono o, nella migliore delle ipotesi, un fratello minore. Siamo dalle parti di Buñuel (gli uomini che grugniscono come maiali), di Georges Franju (nei costumi stilizzati e nella leggerezza delle coreografie) e di Kenneth Anger (nelle atmosfere ieratiche, nell’idea di cinema come strumento di evocazione degli spiriti, nel lavoro sul corpo degli attori). Come uno Jodorowsky brandizzato, al contempo affascinato e repulso dal mercato e dal mondo della moda, Refn si diverte a violentare i generi attraverso la composizione ossessiva di quadri autosufficienti, la cura maniacale delle pesature compositive, generando una proposta estetica essa stessa aliena all’interno di un contenitore, quello di Netflix, che i generi li ha troppo spesso appiattiti ad hashtag, a logiche algoritmiche, proponendo formule sterili, stantie, cloni audiovisivi, repliche di repliche di repliche. È un gioco, quello del contemporaneo, a cui Refn, ormai NWR, brand, stilista, cialtrone, però non si sottrae, anzi, ci gioca, ci sguazza, si diverte, come a ogni film, come a ogni serie, a ribaltare l’opera precedente (il che, nel corso del tempo, gli ha provocato anche diversi guai economici) e lo fa con un manifesto di cinema imperfetto, personalissimo, irresistibile, che rivela e cristallizza definitivamente l’etica del suo sguardo.