Azione, Fantascienza, Recensione

CODICE GENESI

TRAMA

Postapocalisse. Il misterioso Eli viaggia appiedato e solitario verso Occidente, armato di spade, pistole, fucili e una Bibbia.

RECENSIONI

Toglietemi tutto ma non il mio Braille

The book of Eli, a dispetto delle apparenze (cfr. i vari trailer), non è un film semplice da definire/classificare. Etichettarlo come il solito postqualcosa decerebrato americano, ad esempio, non ci convince. Ha una prima parte troppo silenziosa e meditabonda, nel prosieguo manca di (quel tipo di) ritmo, le sequenze action grossolanamente eroistiche, a ben vedere, non sono poi molte mentre il finale, sì forzato e pure un po’ stupido, non è abbastanza happy. Gli Hughes sembrano puntare un pochino più in alto. O a lato. Concedono molto all’entertainment ma si prendono anche tempo quando lo ritengono opportuno e si mettono al servizio di una sceneggiatura – sulla quale torneremo - che tende a prendersi troppo sul serio in termini messianico/teoconservatoristici. Ma il risultato non è tutto da buttare.

I due registi conoscono il mezzo, ritagliano momenti di buona suggestione apocalittica, tratteggiano un protagonista “esagerato” senza strafare, personalizzano con bei long take impossibili sequenze altrimenti ordinarie (l’assalto alla casa della tranquilla coppia di anziani antropofagi, con un ottimo in&out della macchina da presa) e citano rispettosi, lucidi e ludici il cinema che sembra piacer loro veramente (Mad Max, Sergio Leone, Fahrenheit 451). E anche la fotografia desaturata e cinerea di Burgess ha un suo (stravisto) fascino. Il problema del film, e del qui e ora del cinema di intrattenimento americano, è la sceneggiatura. L’esordiente Whitta ha qualche idea, butta giù alcune battute efficaci ma sembra mancargli una visione d’insieme. Il film, narrativamente parlando, si inceppa sul nascere (l’arrivo di Eli nel villaggio) quando i nessi causa-effetto e l’agire dei personaggi cominciano a mancare di una logica “stringente”. E se il colpo di scena shyamalaniano funziona (limitatamente all’effetto sorpresa, difficile immaginare una sua eventuale tenuta ad una re-visione col senno di poi) la trasformazione di Eli in santone di bianco vestito rischia il ridicolo, mentre ancora più assurdo ci pare l’epilogo vero e proprio, con Solara che si fa discepola del maestro e lo sostituisce: con quali capacità fisiche? Quale “addestramento”? Quali doti mistiche? Quali possibilità di sopravvivenza? Insomma: perché?

Riguardo alla possibile adesione etica alla materia trattata, cosa dire? Il nuovo Messia porta l’ultima Bibbia della terra in Occidente perché solo da lì, grazie a quel Libro, rinascerà la speranza per l’umanità tutta. Fate voi. Da parte mia, mi limito a rilevare che comunque, in pieno recupero, viene messa una pezza religiosamente corretta allorquando la Bibbia di Eli fresca di stampa è piazzata su uno scaffale multi confessionale, tra la Torah, il Corano e compagnia sacra. Bah. Fatto sta che Denzel Washington sembra credere nella parte, almeno finché non lo radono a zero e lo intunicano, Gary Oldman fa Gary Oldman che fa Gary Oldman, ma lo fa bene, mentre riguardo a Mila Kunis (già voce di Meg Griffin) non mi viene in mente niente. Riuscita particina per il solito cameista Tom Waits.

Fedeli al proprio cinema figurativamente fatiscente, Allen e Albert Hughes restituiscono un’atmosfera che, per quanto debitrice dei vari Mad Max, ha peculiarità proprie con questa fotografia tendente al bianco e nero che, nel Sole accecante, si fa color ruggine. A distanza di otto anni dalla loro ultima fatica (La Vera Storia di Jack lo Squartatore), si affidano però alla sceneggiatura troppo basica di un esordiente (non articolata, tanto lineare quanto noiosa), con tematiche portanti abbastanza sconcertanti nel loro fondamentalismo biblico, fra potere dello Spirito Santo e necessità imprescindibile della religione per l’uomo. I due gemelli partono benissimo: passo ipnotico mentre seguono il solitario protagonista errabondo nella sua lotta per la sopravvivenza. Poi c’è l’improvvisa esplosione di violenza e l’azione superomistca (in salsa Blade o Daredevil) sbaraglia qualsiasi pretesa di realismo autorale. Paradossalmente, infine, s’invoca proprio quest’ultima per ovviare alle direttrici di una trama che, da western stile Lo Straniero senza Nome (entra nel saloon e il malvagio padrone della città lo prende di mira) si trasforma in biblico stile La Tunica (!) prendendosi troppo sul serio.