TRAMA
In un non individuato futuro, a Shangai, William investiga su una frode ai danni di una compagnia assicuratrice, la Sphinx. Ha contratto l’empathy virus che gli consente di leggere nella mente degli indagati. William scopre che un’impiegata, Maria, è la truffatrice che sta cercando ma decide di non denunciarla. I due si innamorano.
RECENSIONI
Winterbottom non si capisce bene che bestia sia - camaleontica, imprevedibile, molto prolifica -: lo abbiamo da poco lasciato fresco e immeritevole vincitore a Berlino col brutto Cose di questo mondo - tutto un nobile protendersi verso la realtà -, lo ritroviamo a Venezia con questo Code 46, ripiegato in una science fiction pauperistica, tra P.K. Dick e Gibson (soggetto e sceneggiatura sono di un abituale collaboratore del regista, Frank Cottrell Boyce). Si immagini dunque il futuro non così differente dal presente: le metropoli grosso modo come quelle odierne, la disperazione e la povertà ricalcheranno quelle che conosciamo, alienazione e informatizzazione all'ordine del giorno, costante monitoraggio, le città come piccoli mondi chiusi, inaccessibili e non abbandonabili senza passare attraverso le maglie di un'immanente burocrazia à la Grande Fratello. Così lontani così vicini. La metafora legata alle papelles, le coperture assicurative che condannano le persone che ne siano sprovviste a sopravvivere in vere e proprie sotto-culture e alle quali non è permesso di abbandonare le zone autorizzate, è piuttosto chiara (e nemmeno troppo distante da alcuni dei temi toccati dal precedente film).
A dare colore ci pensano delle pennellate di sfatta furbizia volte a rendere novità e decadenza dei tempi: ma basta mettere in bocca ai protagonisti un linguaggio global che mischi idiomi diversi su una base sostanzialmente inglese, per dare un'impressione di altra dimensione altro tempo altra alienazione? O questa e altre scelte non sono piuttosto il trito escamotage teso a insaporire e a dissimulare la confusione che sovrana regna in questa polpetta artificiale?
Allo stesso modo i temi in ballo [1) omnia (non) vincit amor; 2) il ricordare vs il dimenticare; 3) il "dentro" vs il " fuori"; 4) il benessere è bello e caro ma guarda dove ci porterà: autorizzazioni per compiere azioni che esulano dall'ordinario ché altrimenti non si è coperti dalla obbligatoria assicurazione sulla vita firmata Sphinx; 5) il sistema ci controlla, perbacco; 6) cambiano i tempi ma i problemi sono sempre gli stessi] tanto grandi quanto vacui sono trattati con una profondità degna degli avventori di uno scompartimento di un intercity a vostra scelta.
Film a basso budget e indipendente, Code 46 nasce vecchio, tenta varie strade tutte fallendole, non riesce a dare un minimo di sostanza ai suoi personaggi, cincischia sugli stessi deboli elementi per tutta la sua durata, cerca di rattoppare inutilmente le falle del pessimo script, vanta un Tim Robbins investigatore imbambolato che legge nel pensiero dei suoi indagati e ripete la formuletta di rito (uffa) e una Morton che rispolvera la pelata e qualcosa in più del suo recente personaggio spielberghiano. Winterbottom opta per una mdp mobile, una fotografia virata, ricorrendo spesso alle immagini delle telecamere a circuito chiuso, tanto per buttare fumo negli occhi e non dare l'impressione che tanta sciatteria non sia voluta.
Non banale, ma già vista, l'ambientazione "realistica".
Sfiancante e inutile la voce fuori campo.

In un futuro imprecisato, in una Shangai mutuata (anche nei suoni) da "Blade Runner", si aggira l'investigatore Tim Robbins alla ricerca di chi falsifica le coperture assicurative che permettono di entrare e/o uscire dalle città protette. E sì, perche il Grande Fratello conosce ogni cosa, non siamo altro che numeri, codici di accesso, qualsiasi azione compiuta viene memorizzata in file, non esiste la privacy e bla bla bla. Il tema è dei più usurati, ma il film parte comunque bene: costruisce un'atmosfera credibile e riesce a rendere interessanti i personaggi. Poi lo script cede sotto i colpi vigorosi dell'insensatezza e il lato sentimentale prevale su quello fantascientifico fino all'imbarazzante finale (Samantha Morton in versione Tuareg si prenota un posto d'onore nella "Yeeeuuuch! Parade"). Ultimamente le capacità precognitive trovano ampio risalto al cinema ("Immagini", "Final Destination 2"). Qui assumono la forma del virus "empathy" (Sic!) che consente di leggere il pensiero, ma la sostanza non cambia e i copioni si ostinano a utilizzare queste "visioni" senza alcuna razionalità narrativa, saccheggiandole quando ormai lo script non sa più che direzione prendere. Non scatta neanche l'alchimia tra i due protagonisti: una Samantha Morton direttamente prelevata dai Pre-cogs di "Minority Report" e un Tim Robbins volonteroso ma spaesato. Del resto, con una sceneggiatura così, impossibile dargli torto.
Michael Winterbottom conferma la discontinuità del suo curriculum cinematografico. Gira un film dopo l'altro, è inserito nel cartellone dei festival più prestigiosi, ma fatica a trovare un centro di gravità, perlomeno artistico.

Winterbottom è un regista talentuoso, immaginifico, stilizzato, autorale. Quando lavora su di una sceneggiatura che viaggia bene da sola, non fa che esaltarla con un’iconografia e una drammaturgia elaborata. Quando il materiale di base è povero o la stessa (troppa) libertà che il regista si dà porta avanti “solo” il suo cinema fatto di montaggio creativo, scene estatiche, musiche in primo piano ed ellissi narrative, resta la forma vuota: anche in questo caso annoia in quanto le immagini sono paradossalmente più curate di un testo (del fido Frank Cottrell Boyce) privo di spunti originali, alla Philip K. Dick o alla Andrew Niccol, raffazzonato nelle molte suggestioni contenute sul tema “futuro globalizzato, senza libertà”, fra crisi di identità, controllo genetico e della mente. L’opera si riferisce anche al nostro presente, additando il paradosso di una società occidentale del benessere talmente controllata da annullare l’individuo. Alle frontiere, dal Terzo Mondo, in tanti spingono per entrare, non sapendo che perderanno la libertà senza codici, senza regole sempre più stringenti con l’avvento delle nuove tecnologie. Winterbottom, che da tempo affronta qualsiasi materiale e genere purché carrettieri di temi di impegno civile, è molto abile nello sfruttare gli ambienti preesistenti (Shanghai, Hong Kong, Dubai) per dare la sensazione del futuribile, mentre per trasportare la materia in un “altrove” prima di tutto mentale, s’accontenta di un passo un poco surreale e di due protagonisti “diversi” (uno che ha il potere di entrare in empatia con le persone, l’altra che a ogni compleanno sogna una tappa di un ideale percorso ferroviario). Guardando all’Alphaville di Godard, ma con una drammaturgia spossante che si concentra molto e troppo sull’amore proibito, indugiando a lungo sulle sequenze di sesso, anche perché i temi sollevati sono in fondo esigui, sommersi dalle immagini fini a se stesse e dalla verbosità del testo, che ha anche l’infelice idea di (im)porre per tutto il film la voce narrante di lei che si rivolge a lui.
