TRAMA
1846, isole del Pacifico: un avvocato, lentamente avvelenato da un uomo avido, stringe amicizia con uno schiavo; 1936, Scozia: Robert Frobisher, mentre collabora con un noto compositore, concepisce il sestetto ‘Cloud Atlas’; 1973, San Francisco: la giornalista Luisa Rey è sulle tracce di un rapporto che denuncia un reattore nucleare; 2012, Londra: l’editore Timothy Cavendish è rinchiuso dal fratello in un ospizio; 2144, Neo Seoul: l’operaia Sonmi è liberata da un purosangue che vede in lei il futuro dell’umanità; 2321, Hawaii: il capraio Zachry guida una preveggente sul temuto monte Mauna Kea.
RECENSIONI
Parallele e Paralleli
I Wachowski (non più “brothers”: Larry è diventata Lana), dopo Speed Racer, ancora alfieri di una sorta d’avanguardia kitsch: adattano “L’atlante delle nuvole” (2004) di David Mitchell e, per ridurre i costi sfruttandone la natura episodica, dirigono a sei mani con Tom Tykwer (la Germania è azionista di maggioranza, Tykwer scrisse per Matrix Revolutions la canzone ‘Hell Club’), riservandosi i capitoli ambientati nel futuro e quello del 1850, in tre ore consacrate più alla meraviglia umanistica che all’azione spettacolare, con due intuizioni felici: tradire la struttura del romanzo (con il beneplacito dello scrittore che ha un cameo) a favore di un più cinematografico montaggio alternato sui piani temporali e, per meglio esemplificare la reiterazione dei vissuti, fare interpretare più personaggi (con cambi anche di sesso e razza: il doppiaggio uccide) agli stessi attori (sorprendenti I Cinque Volti dell’Assassino svelati sui titoli di coda). Come nuvole informi sotto lo stesso cielo, gli episodi sono passati al setaccio di un’elaborata affabulazione, per associazioni a matriosca e speculazioni potenzialmente illimitate: ma sull’atlante ci sono più parallele che paralleli, raramente le traiettorie con registri diversi (e chiusure troppo spensierate) si fecondano a vicenda, facendo crollare il senso di un’operazione che, a questo scopo, ha destrutturato e ingarbugliato la fonte (dove i racconti sono indipendenti e i collegamenti alla fine), sciorinando le prime pillole di saggezza, per bocca di Sonmi, dopo un’ora di blocchi a compartimenti stagni. L’ambizioso sguardo dall’alto sull’umanità, alla ricerca de L’Albero della Vita fra Intolerance, La Belle Histoire e il fin troppo simile Le Cinque Vite di Hector (1993), declama i suoi versi per dare un nome alla “moltitudine di gocce che forma l’oceano”, ma resta indietro rispetto al piacere ludico del travestimento, l’unico che, infine, riesce a trasmettere il messaggio nella bottiglia sulle vite che non ci appartengono, sui legami oltre il Tempo e lo Spazio, su crimini e cortesie che rinascono nel futuro.

C’è da chiedersi come sarebbe stato il mondo se Somni-451 non avesse visto il finale The Ghastly Ordeal of Timothy Cavendish, una liberazione che proprio nella ripetitività (karmica e filmica) trovava il suo seme.
Ripetività intesa come già visto e necessariamente già vissuto, cuore pulsante di Cloud Atlas, una proliferante e sconclusionata epopea di universi talmente riconoscibili da sforare il posticcio.
Si gioca con la memoria dello spettatore, passando per le traiettorie tipiche del mainstream in cui la definizione di genere è affermata dal ludico artifizio per poi essere contraddetta, esasperata in un continuo tra(n)sgredire la norma, ma senza che questa non estrometta il proprio congegno, conciliante e leggibile fino al parossismo.
Cavalcare il blockbuster e dominarlo.
E fuori discussione quanto siano familiari i sei tasselli che compongono il puzzle di Cloud Atlas, quasi ci trovassimo di fronte una ridondante esperienza già assimilata a suon di visioni passate, dove tutto ciò che ivi è contenuto (intrecci, temi, estetiche, etc) diventa la riproposizione di una lezione già impartita. Ma sta proprio qui la logica terroristica dei tre registi, desiderosi di applicare in modo analogico il saṃsāra dei personaggi a quello del Cinema verso il quale fanno riferimento, incarnando nell’eccesso della messa in scena e del travestimento le varie facce/vite dell’immaginario (filmico) americano, in una connessione reciproca tanto umanista quanto utopica che, tramandandosi e riscrivendosi (l’intera opera è un passaggio di consegne attraverso l’Arte), si innalza a sovversivo messaggio di libertà.
Perché la verità è una sola e Cloud Atlas ce lo urla a gran voce, con una fiducia nel Cinema di sprovveduto idealismo.
