TRAMA
Roma, baraccopoli: Giacinto, avaro capofamiglia di un parentado di origine pugliese, difende i propri risparmi con i denti.
RECENSIONI
L'immondezzaio del mondo civile osservato con lucide, spietate lenti deformanti. La guerra fra poveri non merita indignazioni populiste, è lo specchio deprimente e degradato dei "civili" benestanti che si scannano fra loro per il dio Denaro. La prima prova veramente autorale di Ettore Scola fa sua la denuncia pasoliniana del "genocidio culturale" che non risparmia nessuno nella società dei consumi. Ha il coraggio di rappresentare lo squallore endemico nella povertà senza giustificarlo con quest'ultima: l’inverso di Miracolo a Milano, perché il Boom economico ha annichilito anche l’elegia degli ultimi. Il marcio non è solo fenomenico, è insito nella natura umana egoista ed ipocrita. La maschera incartapecorita (e orba) di uno straordinario Nino Manfredi porta il peso dei peggiori vizi e peccati umani, ma la sua avarizia è circondata dall'opportunismo dei parenti-serpenti. La panoramica della macchina da presa scopre questi umani ammassati come bestie, nella promiscuità, schiavi degli istinti primari e del miraggio della ricchezza. La famiglia allargata di Giacinto/Manfredi non merita pietà in quanto scarto della corsa al benessere materiale, non isola felice che sceglie altri valori. L'occhio di Scola si fa "morale" quando osserva, con piglio documentaristico, i volti dei bambini chiusi in gabbia (un "asilo" amatoriale), con il futuro segnato fra borseggi, prostituzione e gravidanze precoci. Dilaga il pessimismo, salvo un ripensamento (Manfredi in lacrime al desco familiare) ed una vena grottesca più imparentata con gli stilemi fumettistici dello spaghetti-western (di cui riprende anche i rumori delle scazzottate) che con la commedia all'italiana tradizionale di Dino Risi & Co., di cui Scola, che vi ha militato, decreta la fine, perché ormai c'è ben poco da ridere. Avvilente.
