Drammatico

BRIGHT STAR

Titolo OriginaleBright Star
NazioneGran Bretagna/Australia/ Francia
Anno Produzione2009
Durata119'
Sceneggiatura
Tratto dadalla biografia 'Keats' di Andrew Morton
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Londra 1818, sobborgo di Hampstead. La povertà del poeta John Keats e l’ostilità del suo migliore amico sono gli ostacoli alla relazione con la sua vicina, Fanny Brawne.

RECENSIONI

Versare l'anima intorno

Senza forzare in alcun modo il girato, mantenendo un’accorta, ma non seccamente strategica, distanza dalla messa in scena, evidenziando con miracolosa precisione e nessun effettismo il dato psicologico, Campion tratta la storia vera dell’amore spezzato tra il poeta John Keats e la sua stella lucente, Fanny Brawne, attraverso una serie di quadri staccati che rendono gradualmente i termini della situazione sentimentale al centro della rappresentazione, senza sottolineature o affettazioni, senza banalizzazioni esplicative, con uno sguardo che rimane inflessibilmente aderente alla sostanza dell’idillio più che alle sue manifestazioni esteriori; il rigore estremo è ciò che seduce maggiormente di questo lavoro della Campion, la cui messa in scena, mai così esatta e meticolosa, ricorda da vicino le cose migliori di Ivory (in particolare quello jamesiano, meno fiorito e più dimesso, de Gli Europei o I bostoniani): nessuna indulgenza nei confronti delle debolezze o caratteristiche dei personaggi; nessuna urgenza di imbastire un intreccio avvincente privilegiando, alla costruzione di una tensione artificiosa, la contemplazione di momenti di vita quasi ordinari; nessuna idealizzazione della figura ritratta, anzi rivoltamento plateale dell’informazione consegnata all’immaginario con conseguente riduzione della figura all’ovvio dato umano (Il poeta è l’essere meno poetico dice Keats); insistenza sulla crudeltà del meccanismo sociale che, implacabile, distrugge l’istinto per garantire la sopravvivenza di una classe.

Campion gioca tutta la coraggiosa partita del film sul tono minore, fa esordire i suoi personaggi in medias res, non propina informazioni, lascia che tutto quello che concerne i caratteri che si muovono sulla scena, emerga da ciò che fanno e che dicono, senza cedere mai alla didascalia, riprende spesso le figure attraverso lo schermo di una porta o di una finestra, attraverso fronde e fessure, spiandoli, lasciando parlare l’intimità del momento. Ma non si limita a questo: Bright Star vede distrutte le sue potenzialità commerciali  proprio laddove dovrebbero dispiegarsi, nel suo presentarsi quale storia di un amore romantico di uno dei massimi poeti romantici, e lo fa in nome del tono scelto per il film, che si fa forte sì del dato tragico o passionale, ma senza esaltarlo, privilegiando quello più contemplativo e minimale.
Campion non solo evita l’accademia, il barboso ritratto d’epoca, le dinamiche trite del film in costume, al quadro d’insieme privilegiando il dettaglio, non solo scarta la declamazione preferendo il suggerire subliminale, il tacito rinvio, il discorrere elusivo, ma, quel che più conta, dice di una rivolta a un sistema con inedita delicatezza di tratto: lontana dall’espressionismo spinto al quale ci aveva abituati, propone, con prosciugata ispirazione visiva, il consueto agone sessuale e sociale in cui una donna forte combatte la sua battaglia di forma e di sostanza.

Fanny Brawne, che usa l’ago come una spada, gli orli e i merletti a mò di sfida al paralizzato mondo maschile, ostentando la sua fatuità come una medaglia e mai come una gabbia inconsapevole, è un essere che va a squilibrare il menage poetico di Keats e Brown: non è solo una donna a irrompere in un sodalizio cameratesco, ma un’idea precisa di femminilità, dunque, una femminilità che nella sua tenacia combattiva non imita l’uomo, ma alimenta a dismisura le sue proprie caratteristiche e i suoi capricci, non nascondendoli, anzi facendosene indiscutibilmente forte. Fanny non rinuncia alla sua personalità, non pensa neanche per un attimo di mettere in discussione una certa frivolezza per compiacere Keats ed è questa ostinazione femminina che mette in crisi l’amico-poeta Brown, vittima dell’amor platonico per il collega, incapace di contrastare un’onda così anomala in un campo straniero, lontano dalla letteratura, in cui risulta del tutto disarmato. La travolgente forza della donna scompagina le regole del duello di un’epoca tra la profondità della poesia (il maschio) e la superficialità della moda (la femmina) e costringe Keats, d’altra parte, a confrontarsi con la sua diffidenza sentimentale, con le ragioni insondabili dell’attrazione romantica e sessuale, lasciandolo immergere in quel mistero che la poesia incoraggia ad accettare e che indirettamente celebra, in un avvilupparsi di motivi intimisti, di opportunismo ispirativo e rapporti interpersonali complicatissimo, che si cristallizzano in un iceberg di cui la Campion, con grave perfezione, lascia emergere la sola punta. Nella giostra seduttiva, in cui è una famiglia intera a ruotare intorno all’idillio, in cui si incrocia un bacio e mai l’amplesso, in cui alla materialità dei corpi si sostituisce il labile feticcio delle parole dette e scritte, poco accade (i prati sono in fiore, la neve cade, il vento solleva una tenda in una stanza inondata di luce), ma intanto una vita si consuma, un amore muore con essa, si raccolgono con la scopa le farfalle morte dell’ effimera illusione sentimentale.


In un teatro sociale in cui le persone riunite a un tavolo scatenano piccole grandi apocalissi verbali (il consenso materno a sposarsi arriva alla notizia che il libro di poesie sta vendendo), in cui ai rutilanti cambi d’abito di Fanny fa riscontro l’immutabile tenuta di Keats (figura umbratile tratteggiata con la modernità di una rockstar tormentata), che mostra l’economica, siderale distanza tra i due, le componenti del romanticismo non vengono quasi agite, ma rispondono tutte all’appello (la comunione con la natura, le stagioni e i loro mutanti colori che segnano le tappe evolutive di una relazione impossibile, la morte che incombe, il cuore trafitto come la tela dall’ago dell’incipit) .

Da vedersi rigorosamente in lingua originale, per godere delle interpretazioni sublimi di Abbie Cornish e Ben Whishaw (un fuoriclasse, lo si è già scritto), Bright Star è un film meravigliosamente out of target, in cui Campion raggiunge quella pulizia di sguardo che Ritratto di signora, il film che più di ogni altro ricorda quest’ultimo, non riusciva ad avere: l’opera del 1996, lavorava su un terreno molto simile e cercava di profanare l’incombente maniera con altri, diversi manierismi, offuscato com’era da quell’ossessione arty ad ogni costo, qui felicemente accantonata (ciò spiega le perplessità di molti campionani all’indomani della sua presentazione al Festival di Cannes), un’opera magnificamente girata, di stile sorvegliatissimo, di decor trattenuto, senza inutili svolazzi (la regista si concede una plongé e un campo lunghissimo nella sequenza esterna del litigio a tre), che ha l’unico difetto di disunirsi un po’ nella seconda parte.
Nota sulla sceneggiatura: la produzione accredita la Campion di una sceneggiatura originale, ma l’Academy ha rifiutato al film la corsa per una candidatura all’Oscar in quella categoria, avendo sancito che lo scenario è tratto dall’epistolario dei due protagonisti e da una biografia del poeta scritta da Andrew Morton.

Jane Campion dedica il titolo e la pellicola, prima di tutto, a Fanny Brawne e, all’inizio, sembra di ritrovare l’autrice di deliziose, eccentriche figure femminili ritratte in Sweetie e Un Angelo alla mia Tavola, pur passate attraverso il romanticismo dei (escluso In the Cut) film successivi. Questa Fanny, infatti, è vitale, sfrontata, maliziosa, eccentrica. Quando scatta l’amore, la regista tenta da un lato di restituire con la pellicola le matrici della lirica del cuore (mistero, incanto, uso dei sensi…), dall’altro di raffigurare la potenza devastante di un amore adolescenziale che toglie il fiato ed è bipolare (dall’esaltazione alla voglia di morire). Ci riesce solo a metà: l’opera funziona più a livello pittorico, regalando magnifici tableaux vivants (l’uscita della famiglia Brawne in un prato di panni stesi, con Fanny di rosso-pugno-nell’occhio; la camminata fra alberi spogli), meno nell’evocazione dell’amore struggente, nel momento in cui la drammaturgia acquista una piega scontata e poco passionale, più declamata che sentita. Cercando di librarsi sulle ali della poesia, è come se Jane Campion avesse deciso, inopinatamente, di non “sporcare” mai i due amanti, di raffigurarli puri e perfetti, angeli contrastati solo da fattori esterni: il tutto ha poca sostanza se non è sorretto, anche, da un soddisfacente lavoro a livello allegorico. Viene nostalgia della Campion anticonformista, mai melensa nell’affrontare le predilette figure femminili che affondano i denti nella propria passione.