Drammatico

LE COSE CHE VERRANNO

Titolo OriginaleL'avenir
NazioneFrancia/Germania
Anno Produzione2017
Durata102'
Sceneggiatura
Fotografia
Scenografia

TRAMA

Nathalie insegna filosofia in un liceo di Parigi. Il suo lavoro la appassiona, ed ama insegnare ai propri studenti il piacere della riflessione. Sposata con due figli, la donna divide il proprio tempo fra famiglia, scuola e una madre anziana molto possessiva. Un giorno, il marito le annuncia che vuole lasciarla per un’altra donna.

RECENSIONI

Tra romanzo e autobiografia [1], transitività e autoreferenzialità, il cinema della trentaseienne Mia Hansen-Løve è sguardo in bilico fra presenza e dissolvenza, fra percezione della perdita e “cura” devozionale di ciò che resta; racconto dei moti identitari di chi sopravvive a ciò che è svanito (famiglie e padri, amori e ideali), dell’esistenza come transizione incompiuta, come successione di frammenti staccati dal dissolto che riflette l’impegno del suo cinema. Se la dissolvenza incide L’avenir, quinto lungometraggio della regista, fin dal prologo (il campo lasciato vuoto dai protagonisti, la traccia grafica del titolo che affiora e svanisce su e con l’immagine di una lapide che si profila contro l’orizzonte), il segmento filmico consecutivo, trascorsi (in ellissi) alcuni anni, replica a quella prima chiusura in nero con un brusco risveglio: quello di Nathalie (una straordinaria e “addolcita” Isabelle Huppert), sessantenne insegnante di filosofia, che accende la luce nella sua camera da letto, risponde alla chiamata notturna della madre e si manifesta già come una figura che replica alle forme della vacuità che sono diventate il segno preminente del quotidiano e della sua crisi. Abbandonata dal marito, lontana dai figli, orfana, licenziata da una casa editrice non più interessata ai suoi scritti «austeri» e distaccata dalle radicali visioni del mondo della gioventù, la macchina da presa di Hansen-Løve segue e attende Nathalie come presenza di fronte all’assenza, la osserva a distanza attorniata dai luoghi e dalle cose degli altri, ne indaga le reazioni e le dispersioni in mezzo a essi. Nathalie esamina gli spazi vuoti lasciati sugli scaffali dai libri portati via dal marito, e li rimpiazza con le loro copie; getta nell’immondizia il mazzo di fiori dell’uomo, e si ritrova a sistemare e a sistemarsi davanti a quello portatole dai suoi studenti; desidera abbandonare Pandora, la vecchia gatta della madre alla quale è allergica, ma fino alla fine la attende e la porta con sé. E maneggia copie, sostituti e ritorni che sono i motivi della separazione e della mancanza che rimandano alla discrasia, di ascendenza rohmeriana, fra le confessioni razionali e rivendicative di un sé che fronteggia il vuoto («ho la fortuna», dice Nathalie, «di avere una vita intellettuale molto piena. Mi basta per essere felice») e le pulsioni istintive di un’identità che, pur “liberata” (dai ruoli di moglie, madre, figlia, mentore e padrona, e dalle responsabilità che da questi derivavano), si scopre ripiegata verso i propri «souvenir».

Come una versione matura e disincantata della Delphine/Marie Rivière de Le rayon vert (1986) di Éric Rohmer (referente filmico dichiarato dalla stessa regista), che era il racconto della quest estiva di una giovane donna parigina, costellata dei segnali che inveravano il suo sogno d’amore, anche Nathalie “scopre” il vento [2]. Ma se l’eroina rohmeriana vedeva il vento, non ignorava cioè la portata epifanica di un mondo che sembrava partecipare delle sue fantasie, Nathalie vede i compiti dei suoi alunni dispersi dalla brezza sul prato. E correndo a recuperarli e sistemarli, accorre nel campo come compiuta figura della resilienza empirica inseguita dal cinema di Hansen-Løve, avvicinata e distanziata per comprendere e forse «insegnare» quel vuoto che è il fulcro dell’avvenire e del mandato creativo dello sguardo proteso su di esso.