TRAMA
La vita delle donne di casa Weston ha preso una direzione diversa, ma il funerale del padre suicida le riporta ancora una volta nella casa in cui sono cresciute nel Midwest.
RECENSIONI
C'era una volta, molto prima dello shake con Pharrell Williams al Dolby Theatre, un'attrice famosa per imitare gli accenti. C'era una volta, molto prima della mail di solidarietà alla mancata candidatura di Emma Thompson per Saving Mr. Banks, un'attrice che indignata dall'assegno strappato a Nicholson per interpretare Joker, rilasciava interviste perché i cachet delle donne fossero pari a quelli dei colleghi maschi (giusto, sempre che con la stessa somma data a Jack tu sia in grado di trasformare Batman nel primo incasso dell'anno; altrimenti ciccia, ché un solo film sopra i cento milioni in un decennio – La mia Africa - è più un caso che una garanzia di star power). C'era una volta insomma, molto prima di “nessuno tocchi Meryl Streep”, sentita l’altra sera in un gruppo d’ascolto durante la notte degli Oscar, e detta con l'assertività riservata ai miti veri, una vera prima della classe. Talmente perfezionista che per “vendere” She-Devil s’inventarono una specie di campagna di simpatizzazione alla Garbo ride. Nel 1991, in The Great Movie Stars: The International Years, David Shipman ne sezionava la carriera film dopo film puntualizzando fisime e tic, giungendo a considerarne le prove come sforzi compiaciuti di alto tecnicismo, anche quello in cui mollava la figlia ai nazisti e tanti saluti, almeno gassano te e non me. John Cazale (con il quale ebbe una storia alla fine dei Settanta) diceva che guardarla recitare era come guardare un orologio svizzero; Pauline Kael, che un'attrice che arriva sul set già con tutto il personaggio studiato a casa, bè, sta a casa; Camille Paglia, che era la fine della carnalità, del magnetismo, del cinema come lo conosciamo, punto. E di come i visi che meritino di illuminare il grande schermo siano quelli alla Elizabeth Taylor, altro che nasi sgembi e freddezza wasp. Non è stato facile togliersi quella nomea da secchiona frigida e diventare l’icona intoccabile ma compagnona di oggi. Son dovuti passare tutti i Novanta e un paio di comeback.
Nel frattempo il contatore dell’Academy segnava. Per il suo ruolo di Violet Westson ne I Segreti di Osage County, Meryl Streep ha ottenuto la diciottesima candidatura. Come diciotto sono i numeri uno di Mariah Carey. Meryl Streep è quindi diventata Mariah Carey. E per quanto mi sforzi di ricordare quali tra questi diciotto abbiano avuto l'onore del primo posto, alla fine arrivo al massimo a due, tre titoli. E tra quelli non c'è né una pietra miliare come I will always love you, né un anthem come Like a virgin. Cioè canzoni che, a meno che non ci si nutra delle radici della Grande bellezza, non si può non conoscere. Come disse Rolling Stone anni fa: “Sono diciotto numeri uno che non hanno inciso nell'immaginario collettivo”. Direte che con i film è un'altra cosa, vero. Tuttavia troppe delle nomination di Meryl sono dovute più a una media scolastica alta, che a reali, impressionanti, inequivocabili, meriti artistici; vogliamo parlare di La Voce del cuore, Ironweed, La Musica del cuore o di questa Violet Weston? Parliamone. Violet Weston è la moglie di un poeta che prima scompare e poi muore. Violet Weston è la madre incancrenita di tre figlie fallite. Violet Weston è drogata di tranquillanti, è violenta e impietosa. Violet Weston è il peggio dell’istrionismo merylstreeppiano. Violet infatti potrebbe essere l’evoluzione di Karen Silkwood, che liberatasi di Cher e Kurt Russell si è rifatta una vita in Oklahoma; cancro e palle girate la naturale conseguenza di una vita di radiazioni. O di Inga Helms Weiss di Olocausto (la miniserie del '78), che è riuscita a riparare in America e a mettere su una famiglia, ma la sfiga lavora anche per gli ex internati e si becca un cancro; vedendosi poi di nuovo rapata dà di matto, e come darle torto, (la corsa incespicante tra le balle di fieno un omaggio a quando arrancava nel fango di Buchenwald). Ma potrebbe anche essere Francesca scappata dalla fattoria de I Ponti di, che finalmente trova Clint il quale però la rimbalza (troppo tardi bella, dovevi pensarci prima), si mette dunque col primo che passa, diventa acida perché non è come stare con un fotografo alto e bello del National Geographic, e si becca un cancro alla bocca. Potrebbe essere il sequel di qualsiasi cosa che ha fatto, non solo perché sono innumerevoli le cose che ha fatto, ma perché Meryl non è attrice di sottigliezze, a meno che non si tratti di fare la carta carbone di un personaggio storico (la Thatcher), o inventarne uno di fantasia ma caricaturale (Il Diavolo veste Prada); allora è la migliore.
Ma Violet è anche tante altre cose: Baby Jane Hudson, la Martha di Chi ha paura di Virginia Woolf?, Helen Lawson de La Valle delle bambole, tutto quel gruppo di pazze che però sono un po' più credibili di lei, volgari ma con un po' più di cuore di lei. Quando Julia Roberts la mena, non ne potevamo più già da mezz'ora. Ha dato della lesbica a una delle tre figlie, ha accusato un'altra di essere la vera causa della morte del padre, tratta la badante nativa americana come una lavascale. Dice anche cose divertenti, alla figlia più slavata per esempio (quella che s'innamora di Cumberbatch e poi scopre che è suo fratello e quindi fugge in macchina e secondo me è ancora in autostrada), che l'unica donna che poteva permettersi di andare in giro senza trucco era Elizabeth Taylor, che invece ne metteva quintali. Un'ironia nell'ironia di un carattere che avrebbe guadagnato in tridimensionalità nel copiare un po' la Martha di Liz, altrettanto bieca ma più sfaccettata, scordandoci di farci vedere con la meticolosità di cui è nota: il cancro alla bocca spalancandola con le mani, i movimenti di deglutizione che una pillola provoca una volta ingoiata, la confusione psicotica di una malata terminale che balla da sola di notte. Momenti che il regista John Wells voleva di senso, e che invece sono il meglio dei saggi di fine anno di un'accademia di drag queen di provincia, se mai ne esistesse una ma sono sicuro di sì. E il problema è proprio questo, il personaggio della Davis e della Hayward interpretato da donne e diventato camp, e della Streep che sembra interpretato da uomo in drag, vuoi anche il tono di voce da baritono. Anche Julia però se ne esce con una battuta buona, la dice alla figlia mentre si stanno recando a riconoscere il corpo del padre: 'Se sapessimo che cosa ci aspetta nel futuro, non ci alzeremmo mai dal letto.' Che mi ricorda 'se Gesù tornasse e vedesse quello che succede in suo nome, non la smetterebbe più di vomitare'. Che mi ricorda anche che di famiglie disfunzionali quante ne volete, che Annette Bening in Correndo con le forbici in mano non era niente male come madre fuori, e che bello sarebbe questo nostro triste mondo malato se Emma Thompson avesse risposto alla mail di Meryl dandole della stronza.
Fa caldo, è Agosto nella contea di Osage dell’Oklahoma: la temperatura corporea, però, sale in particolar modo nella Barbara di Julia Roberts, determinata a scontrarsi con una madre dittatoriale, sentenziosa senza remore e non del tutto coperta dall’alibi degli antidepressivi che ingurgita. La pièce premio Pulitzer (2007) di Tracy Letts disserta, non fra le prime, sulle tensioni familiari che esplodono in una riunione globale dei suoi membri, coadiuvate da un evento traumatico. John Wells non possiede certo il nerbo e la visionarietà di William Friedkin, che ha magnificamente adattato altre due scritture di Tracy Letts (Bug e Killer Joe), e si affida per lo più agli interpreti, coerente con un metodo applicato anche nei serial televisivi (le improvvisazioni in Shameless). La sua opera è magnetica per livello recitativo e dialoghi di fuoco, per la tensione sussultoria che segue gli umori della mater familias, capace di passare da un delirio senza connessione mentale ad una sfuriata imbarazzante, fino ad un inatteso moto di dolcezza. Meryl Streep è formidabile, è una delle sue (tante) interpretazioni migliori e le figure che attorniano il suo personaggio sono tutte interessanti, peculiari, pronte a servire il piatto dell’eccentricità che cova in ogni seno familiare (per quanto Letts abbia denunciato che la sceneggiatura le abbia oltremodo sacrificate). Ci sono, però, due imperfezioni, una di scrittura e una di regia: la prima riguarda il colpo di scena dei cugini-fratelli, abbastanza gratuito, troppo soap-operistico, stonato nell’economia del racconto. La seconda alberga nel finale (prolungato rispetto all’opera teatrale, scelta dettata dai preview), dove Wells fatica a rendere potente e comprensibile il detto (dai dialoghi) e l’agito fra madre e figlia, cosa ha mosso una e cosa muove l’altra ad andarsene. Ma la potenza c’è e riporta ad opere del passato quali Chi Ha Paura di Virginia Woolf e (per certe trame) Piccole Volpi.