Drammatico, Recensione

GLI ULTIMI GIORNI DI POMPEI

Titolo OriginaleThe Last Days of Pompeii
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1935
Durata96'

TRAMA

Un fabbro, persa la famiglia, diventa un famoso gladiatore, raccoglie un orfano e giura fedeltà al dio Denaro.

RECENSIONI

I migliori lavori del team di King Kong (Schoedsack alla regia, Merian C. Cooper alla produzione, James A. Creelman e Ruth Rose, moglie di Schoedsack, alla sceneggiatura, Willis O'Brien & Co. come tecnici degli effetti speciali) non sono caratterizzati solo dal fascino esotico dell'avventura, dell'abnorme (King Kong=Vesuvio) e della sua spettacolarità: possiedono sempre una tensione morale edificante che osserva e condanna gli errori degli esseri umani, senza per questo cadere in trappole manichee. Anche questo kolossal peplum, che ha ben poco da spartire con il romanzo omonimo di Sir Edward George Bulwer-Lytton, non vuole esaurirsi nei combattimenti fra gladiatori nell'arena (per altro quasi sempre "off"), tantomeno si serve in modo gratuito della catastrofe finale con il Vesuvio in eruzione. Il loro film è, soprattutto, il racconto, esemplare come didascalico, del percorso di crescita spirituale di un uomo messo a dura prova dagli eventi, incerto fra l'idealismo e il materialismo, infine votato alla cinica logica d'accumulo dei beni a fin di bene (per il figlio): disprezza la povertà, priva della libertà il prossimo, lo costringe a morire, uccide per salvare i propri cari e proprio in quel momento li perde. Superbo, orgoglioso, testardo, dignitoso, confonde Ponzio Pilato con Gesù, gridando, come il primo, d'essere innocente del sangue dei giusti. Il soggetto di Creelman e Melville Baker, sorprendente nelle sue paradigmatiche, mai declamate, coincidenze "religiose", incrocia volutamente la Passione di Cristo per trasformare Pompei in Sodoma e Gomorra e la coscienza di un uomo nel campo di battaglia fra il messaggio d'amore e gli spietati compromessi cui la vita costringe anche i più miti. Schoedsack e Ruth Rose, purtroppo, non intuiscono del tutto la felice sobrietà moralistica del testo, lo piegano storto con un raccontare telegrafico o con sottolineature che celebrano aprioristicamente gli ideali del Vangelo anziché comunicare all'anima, ma la qualità resta.