Catastrofico, Fantascienza, Recensione

AFTER EARTH

Titolo OriginaleAfter Earth
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2013
Durata100'
Tratto dada un soggetto di Will Smith

TRAMA

In seguito ad un atterraggio di fortuna, Kitai Raige ed il padre Cypher si ritrovano sulla Terra 1000 anni dopo la fuga cui furono costretti gli esseri umani a causa di un cataclisma. Poiché Cypher è seriamente ferito, Kitai deve spingersi in cerca di aiuto, muovendosi in un territorio ormai a lui sconosciuto, fra strane specie animali che ora dominano il pianeta, e minacciato da una inarrestabile creatura aliena fuggita dopo l’ atterraggio. Padre e figlio dovranno imparare a collaborare e a fidarsi l’uno dell’altro per riuscire a tornare a casa. (dal pressbook del film)

RECENSIONI

Scritto da Gary Whitta, riscritto da Shyamalan (per la prima volta a confronto con una sceneggiatura non originale), poi rivisto da Stephen Gaghan (Regole d’onore, Traffic, Syriana), After Earth è un film su commissione (e dunque come in L’ultimo dominatore dell’aria non c’è nemmeno l’abituale cameo a sancire l’appropriazione autoriale da parte di Shyamalan). Come La ricerca della felicità, come Karate Kid. La leggenda continua, questo è un film consacrato alla costruzione di una carriera: quella di Jaden Smith, ad opera del padre Will. Amen. Perché, comunque, il discorso del cinema di Shyamalan insiste, traducendosi in un prodotto fuori dal tempo, sul proprio tempo. After Earth, come sempre concentrato sul piacere e il dispiacere dell’affabulazione, guarda a un target di pubblico infantile per tendere nuovamente verso il grado zero della fiaba (il primo digitale del regista indiano americano accompagna il percorso, con enfasi ingenua, così come è coerente il ricco design pauperistico), si prosciuga dall’ironia (ed è al solito una scelta di responsabilità del racconto, che s’ammorbidisce solo in una chiosa finale degna d’un film di Wilder, quando il nuovo eroe ossessionato dal modello paterno afferma sfinito: «Voglio fare il lavoro della mamma»), riducendosi alle funzioni di Propp e a una seriosa caricatura di retorica conservatrice: morali e metafore collassano sull’elementarità di una narrazione che se ne fa carico disinteressandosi del ridicolo, come in una parabola, il racconto scoperto di un nuovo folclore.

Un’idea arcaica dello storytelling, per parlare del contemporaneo: il rapporto tra Kitai e Cypher non è solo quello di un figlio con la figura paterna, ma anche quello di un individuo che deve imparare a fare a meno della sua guida, una guida tecnologica che incrementa sistematicamente la sua coscienza delle cose, che lo aiuta da remoto. Come in E venne il giorno, la coscienza di sé avviene in una dimensione antimodernista: non sono film ecologisti, questi. Sono film umanisti. Sull’uomo di oggi. Perché qui ci si domanda, come in un trattatello di filosofia teoretica per alunni delle elementari, in che modo l’uomo sperimenta il mondo, in che modo lo conosce: Kitai si muove in una Terra tornata alle origini, in una primavolta, ma la sua esperienza è filtrata dalla tecnologia e dalle idee pregresse, i suoi giudizi sono suggeriti dai sistemi di controllo, dal padre, o sono pregiudizi, ancorati ai ricordi. Per questo il suo scopo è l’essere presente a se stesso (ginocchio a terra). Perché solo governando il presente, slegandosi dalla paura nata dal passato, può raggiungere l’unica caratteristica che lo può salvare: la non tracciabilità della sua presenza. Questa riappropriazione di una concezione di deissi, del qui e dell’ora, è un invito che dialoga con un pubblico nativo digitale, abituato alle realtà aumentata della rete, al dislocamento, all’essere n/ovunque: d’altronde non è un caso che, come in World War Z, l’obiettivo degli eroi di queste ennesime distopie sia quello di non lasciarsi mappare dal nemico, la ricerca di una possibile invisibilità in un regime di visibilità totale. Alla maestria registica spetta il compito di rendere emotivamente credibile una storia basilare, regredita ad apologo, simbolicamente sfacciata, corpo a corpo con una gravità che il contemporaneo rigetta spesso come risibile: ovvio che non lo accettino in molti, ma After Earth è l’ipotesi di un fertile cinema infantile, maggiormente responsabile di un cinema adulto costantemente degradato a orizzonti (emotivi ed intellettuali) adolescenziali.

Terminale banco di prova con budget sostanzioso per Shyamalan, dopo il fallimentare L'Ultimo Dominatore dell'Aria e troppe prove non all’altezza del suo nome: c’è chi si ostina a difenderlo con l’alibi delle opere su commissione, ma è il regista stesso a smentire nelle interviste e, per quanto questa sia la prima volta che viene coinvolto con un progetto già avviato, partorito da Will Smith (suo il soggetto) per ri-sponsorizzare il figlio Jaden, rifà La Ricerca della Felicità con facoltà di mettere mano alla sceneggiatura, di proseguire un discorso personale sugli elementi (dopo l’acqua di Lady in the Water e l’aria dell'Ultimo Dominatore, tocca alla terra…), e di perseverare nell’errore che lo contraddistingue ultimamente, nel momento in cui si affida ad una drammaturgia dal semplicismo disarmante (poco aiutato dal co-sceneggiatore Gary Whitta, quello, non a caso, di Codice Genesi). Non si tratta di lodevole recupero di una linearità illuminante o di una sottrazione che risalti “l’anima” del ritratto, ma solo di apologhi dalle traiettorie prevedibili: non appena il testo, infatti, suggerisce le chiavi di lettura, fra Moby Dick e il figlio della paura che vuole emulare il padre, svolgimento e conclusione sono dati. A fare tenerezza, a salvare anche le sue regie meno ispirate come questa, è la sincerità d’approccio, la palpabile aderenza a questo modo di raccontare da bambini per bambini, in contrasto con l’immagine nel mercato dell’opera, venduta come fantascienza adulta e con azione popcorn. Il percorso del giovane protagonista è senz’altro periglioso, risaputo ma d’intrattenimento, non fosse per un terrificante software di animazione degli animali sulla Terra (le tigri paiono uscire da L'Era Glaciale).