TRAMA
Il soldato Logan si salva da un attentato in Iraq: in quel momento stava raccogliendo la foto di una bella ragazza tra le macerie. Tornato a casa vuole trovarla e “ringraziarla”.
RECENSIONI
Il dramma sentimentale americano trova, con The Lucky One, una delle peggiori declinazioni degli ultimi anni. Tratto dal romanzo di Nicholas Sparks che, a giudicare dalla sceneggiatura di Will Fetters, è un abile concentrato della retorica narrativa Usa contemporanea: c’è la guerra certo, ma non ci si espone mai (la parola Iraq è solo pronunciata dopo un’ora di film); c’è il ritorno del soldato, che da una parte resta tale (“Io sono un marine”) e dall’altra – con i suoi problemi psicologici e le difficoltà relazionali – implicitamente “boccia” il conflitto; c’è la ragazza malinconica della provincia americana; e c’è la love story che si sviluppa gradualmente sotto l’ala del Destino (!). Nelle pieghe del testo, per la verità, ci sarebbe almeno uno spunto rilevante, la foto ritrovata da Logan tra le rovine: questa offre la possibilità di interrogarsi sulla natura stessa di uno scatto, ovvero la possibilità salvifica di un’immagine sconosciuta (quindi la salvezza offerta dalla figura in quanto tale), di conseguenza l’uomo salvo per l’immagine che vuole conoscerla e saldare il proprio debito. Ma siamo già in territori troppo alti per questo libro/film.
Il regista Scott Hicks gira Ho cercato il tuo nome secondo uno schema evidente: dall’incontro Logan/Beth alla diffidenza iniziale, passando per l’avvicinamento, la rivelazione del segreto, il nuovo allontanamento ecc. A contorno c’è anche l’antagonista (lo sbirro Keith) e l’aiutante del protagonista (la nonna Ellie) che, insieme all’ottenne Ben, contribuiscono a far muovere l’intreccio. Insomma con gli ingredienti del romanzo si poteva fare poco: tra questi vanno citati almeno un paio di scenate (Beth distrugge i vasi di fiori) e una parentesi clerico/musicale (il bimbo che suona in chiesa) che mira alla lacrimazione senza vergogna. Detto questo, però, Hicks ci mette del suo: il reparto cromatico si sviluppa all’insegna della comoda ruffianeria (natura, fiori, animali), c’è tanta voglia di piacere, nei momenti topici scatta il ralenti, i volti vengono inquadrati dolenti, commossi, in controluce al tramonto. Tra l’altro la regia in sé, come dimostrato ne La neve cade sui cedri, in potenza ha qualità: vedere la sequenza iniziale dell’esplosione della bomba, che è tecnicamente interessante ma – come simbolo del film – è accennata e tirata via, c’è fretta di chiuderla per lasciare lo sforzo di costruzione visiva e tornare su parametri convenzionali.
In realtà gli stereotipi ci possono anche stare, accettando la medietà del prodotto e considerando i luoghi comuni come tratti di un'atmosfera quasi fiabesca, fatta di archetipi e figure riconoscibili: la città, il bambino, il bosco, il fiume... Il problema vero arriva nella seconda parte che, a conti fatti, è una lunga posticipazione del finale, un rinvio potenzialmente infinito che impone una catena di piccole cose senza importanza - baci, liti, tragedie - prima della chiusura idilliaca. Attori secondari adatti al contesto: Taylor Schilling ha una bella faccia, Blythe Danner sfoggia simpatia costruita, Jay Ferguson ringhia e fa un po' di casino. Al centro c'è il caso Zac Efron. All'epoca della rivalutazione di tutto, quando sembra obbligatorio trovare un secondo grado di lettura, l'interpretazione di Efron ci dà una severa lezione; mentre si sdogana Robert Pattinson con Bel Ami e Cosmopolis, a 25 anni il povero Zac con lo sguardo spaesato e l'abuso di epidermide, l'espressione immutabile e la perenne sorpresa (cosa ci faccio qui?), ci ricorda che non dobbiamo esagerare: è solo un pezzo di legno. Al primo grado e anche a tutti gli altri.