TRAMA
Justin Kemp, durante il mandato da giurato in un processo per omicidio di alto livello, si trova alle prese con un grave dilemma morale che potrebbe influenzare il verdetto della giuria e potenzialmente condannare – o liberare – l’ imputato di omicidio.
RECENSIONI
È un caso che Giurato numero 2 sia uscito al cinema a poche settimane di distanza dal film dell’altro “grande vecchio” del cinema americano, Francis Ford Coppola. I due lavori abbracciano prospettive, per certi versi, antitetiche, figlie non solo, o non tanto, della cultura cine-letteraria che ha impregnato nel corso dei decenni i due autori, uno assai più prolifico dell’altro, ma di una differente disposizione rispetto al futuro (al proprio, anche, con un’ottica però universale, di discorso ampio sulle cose del mondo). Coppola, al di là delle traversie economiche e produttive, che mal si addicono all’idea di tentare di nuovo la via del lungometraggio, ha scelto di girare il proprio testamento in forma di favola dolceamara; non vale lo stesso per Clint che pare volerci dire: alla prossima, gente. See you at the bar.
Le due chiusure si parlano: dentro, al centro, c’è il futuro. Il futuro di una famiglia (dissacrata), di un Paese claudicante e moralista (e amorale), di due uomini controversi che imbastiscono un dialogo ineludibile tra responsabilità, colpa e senso di colpa. In Megalopolis il domani, rappresentato dalla nuova nascita, è ciò che emenda gli errori del presente (e del passato), è l’elemento mobile – l’unico – in un mondo impassibile e fermo; fermo perché inetto, perché vittima, e al tempo stesso carnefice, di una smania megalomane, ma alimentato dall’illusione di poter controllare il tempo a proprio piacimento. Il visionario è un genio, ma è anche un pazzo: è Steve Jobs e Aguirre. In Giurato numero 2 la gioia della paternità – la bambina è infagottata, quasi costretta, nel suo vestitino – è un segno prodromico rispetto a un avvenire sul quale lo spettatore può muovere soltanto delle congetture. Sono due visioni che si lambiscono appena: più indulgente, quasi riconciliato, l’autore del Padrino – una saga nella quale non affiorava nemmeno il minimo barlume di speranza – lucidissimo, nel suo umanesimo sofferto, meno incazzato di un tempo, non meno efficace, Eastwood. Non c’è più spazio – e non è più tempo, ancora, sempre, il tempo, per lo splendido novantaquattrenne, Clint – per l’immolazione cristologico-prometeica di Gran Torino, con l’accendino, la luce della conoscenza, contrapposta al buio dell’intolleranza, scambiata per una pistola; sfumata, sì, ma pur sempre una linea di demarcazione a dividere bene e male. Qui non esiste salvezza, nemmeno per procura, e ora Dio, ammesso e non concesso che si trovi da qualche parte e che sia interessato alle sorti dei poveracci, campeggia sulla scritta asettica, persino derisoria, visto il funzionamento dell’impianto giudiziario, di un’aula di tribunale: in God we trust. Come no.
Non ha senso neppure provarci, ma, se non ci provassimo, se non ci interrogassimo – “ne è valsa la pena?”, chiede l’avvocato interpretato da Chris Messina alla neo-eletta procuratrice, Toni Collette – non saremmo più uomini. E allora ci proviamo, consapevoli che, nella diatriba eterna tra giustizia e verità, non sia possibile trovare il bandolo della matassa: l’una affidata a bias di conferma – la colpa sopravvive al fatto/ai fatti, non è estinguibile, quindi ogni ricerca di giustizia è vana – e l’altra, be’, quid est veritas? si domandava l’unica figura del Nuovo Testamento a cui Nietzsche riteneva che valesse la pena di rendere onore.
E se dunque è per pura sorte che i due film succitati siano usciti in sala nello stesso periodo, almeno qui in Italia, non lo è che in entrambi echeggi, in un caso in modo esplicito, come citazione letterale, nell’altro come mera suggestione – o, nel mio caso, potrei dire fissazione – William Shakespeare. Perché non si può parlare di uomini, senza guardare al Bardo. Harold Bloom, con il suo slancio catalogatore, lo ha sempre sostenuto: aveva ragione.
In Megalopolis, l’appiglio è più che evidente, finanche sottolineato. Il più noto soliloquio di Amleto, e uno dei più famosi di tutto il teatro occidentale – To be or not to be – diventa un’arringa atta a persuadere il prossimo delle proprie buone intenzioni, come se si potesse traslare l’orazione funebre di Marco Antonio su sé stessi, sul proprio essere (o non essere): Friends, Romans, countrymen, lend me your ears. Ma chi è/crede di essere – o non essere – Cesar Catilina? Quel Cesare della gens Iulia o, sarcasticamente, un uomo d’onore? Il personale è politico, certo: il cambio di, per così dire, destinazione d’uso, non è affatto banale, considerando che chi pronuncia quelle parole è, nel nome che porta e nell’identità, una crasi fra un imperatore e un perseguitato (interessante, se si pensa a ciò che si è detto poco fa, che si citi l’attentato a Don Vito Corleone, apparentando, in qualche modo, la figura di Cesar Catilina con quella di un capomafia). Si cita poi, en passant, La tempesta, anche qui in uno dei suoi versi più celebri. Ci muoviamo all’interno di una fiaba dove la magia è sia mortifera sia forza motrice, flebile e sfuggente – immateriale – come un sogno che si dissolve al risveglio.
Nell’ultimo – ma non ultimo! – lavoro di Eastwood, ci sono invece alcuni indizi. Una data che lega il destino di due uomini, o forse di uno soltanto, ché vale il je est un autre – io è un altro – in un’accezione che contraddice il precetto kantiano, poiché si tratta di un io incapace, per comodità, per dolo, per ecc. ecc., di supportare le proprie stesse rappresentazioni, ma si fa ricondurre piuttosto all’ipotesi reificante di Sartre sull’io al di fuori (siamo in un tribunale a dibattere su un omicidio (?), eppure l’officiante potrebbe essere tranquillamente Sigmund Freud). L’io è un grumo indistinto – un io senza identità – in modo talmente schiacciante da risultare una sorta di strana alterità anche nel contesto che più gli è caro, perché è convinto che lo abbia salvato… da sé stesso, appunto: la sua famiglia, un’estensione di coscienza incapace di completare il tassello che manca. Per due volte, la moglie del protagonista spegne la luce mentre lui è in una stanza, lasciandolo al buio completo, come se non ci fosse o la sua presenza non fosse così rilevante. Senza contare che l’auto incriminata è intestata a lei e l’avvocato dell’accusa non nota il soggetto ritratto nelle numerose foto esposte in casa: l’uomo che non c’è/non c’era. Sì, perché Justin Kemp è un altro – l’alterego, il numero due, rispetto all’imputato, identici, ma seduti dalla parte opposta – e non è nessuno. Kemp ha la possibilità di giudicare sé stesso ed emette un verdetto di condanna: una condanna bianca.
La data, dicevo: il 25 ottobre. In Giurato numero 2 segna due momenti: il termine previsto per la nascita di due gemelli – di nuovo il tema del doppio imploso – che non vedranno mai la luce e il giorno del presunto omicidio di Kendall Carter, ragione per la quale è stato imbastito un processo a carico del fidanzato di lei. Per Shakespeare significa la battaglia di Azincourt, al centro dell’Enrico V: l’attimo in cui lo sfaccendato e beone, insieme al sodale, Falstaff, Enrico trova le parole giuste.
C’è anche altro, giacché le parole giuste – We few, we happy few, we band of brothers ecc. – sono parole fictional. Finte, ma talmente potenti da volerle rendere vive, verità storica, la Verità.
Quasi fosse al cospetto di sliding doors, Justin Kemp prova a trovare le parole, inizialmente per capire, poi per salvare un innocente (sé stesso, l’altro, entrambi?), infine per condannarlo, disconoscendo, ma solo come goffa esternazione, la colpa che sente affossargli le spalle. Le cerca, ma non riesce a usare quelle giuste, perché non è Enrico né tantomeno è Amleto, anche se potrebbe intravedersi un nucleo di quella profondità, solo in minima parte sondabile, in lui: conscience does make cowards of us all.
Un qualcosa, un barlume, chissà, che consente di rileggere il film in una chiave più estensiva, ragionando non tanto sulle falle di uno stato di diritto con molti aspetti al rovescio, ma sull’idea dell’individuo in una società – pubblico incluso, perché noi stiamo creando certezze dove ci sono dubbi, stiamo giudicando – che lo ha relegato all’etichetta – l’alcolizzato, il criminale – e all’idea di una responsabilità che è tale, e tale resta, a prescindere dalle azioni. Lo spettatore non ha informazioni sufficienti per emettere un verdetto che pure pretende di emettere; non sa cosa sia successo alla giovane Carter e non lo sanno neppure i due innocenti/colpevoli (uno non lo sa di sicuro, perché la sua colpa è la supposizione di una colpa, è la colpa per altre colpe, una colpa persecutoria). Quando Toni Collette – che si chiama Faith, fede – prova a capire se ci siano altre piste che non sono state seguite, durante delle indagini poco irreprensibili, fatte di testimoni imbeccati e autopsie frettolose, di particolari ignorati, non viene investita per un pelo: quante macchine avevano sfrecciato la notte del fattaccio in quel luogo con un segnale di pericolo per “attraversamento daini”?
Nei pressi della lapide della vittima, Kemp incontra un personaggio che ha una sola battuta: non lo abbiamo mai incontrato e non lo incontreremo più. Ciò che pronuncia ha un senso maggiore se lo si legge alla luce di una conoscenza più profonda della vicenda, una conoscenza che quell’inserviente del cimitero non può avere. “È passata la tempesta”, dice, senza che si colga appieno il tono: è un’affermazione o un quesito? Potrebbe naturalmente riferirsi alla fine del processo, se ha fatto caso ai movimenti del visitatore, ma, per suggestione, ancora una volta, ci riporta lì: a Hamlet e ai becchini. Quale tempesta è finita davvero? La frase/domanda sembra permeata da un’ironia sagace, ma sinistra.
La giovane Kendal Carter muore come Ofelia, annegata in un ruscello, anche se iconograficamente la scena che vediamo ha poco dei tratti preraffaelliti di John Everett Millais. E se fosse stata una caduta accidentale, come ipotizza l’escursionista durante il dibattimento? O se fosse stato un suicidio?
Giustizia non è fatta, né quella degli uomini né quella di Dio. Perché Justin Kemp non è il Dave Boyle di Mystic River e non va incontro all’ineluttabile con lo stesso incedere tragico. E la procuratrice è forse una brava persona, ma che vuol dire in fondo brava? Brava per chi? E noi, che condanneremmo Kemp, per quello che è stato, per quello che lui crede di essere, lo siamo? Alla domanda dell’amico avvocato – “ne è valsa la pena?” – per quel che ne sappiamo, ferma ai piedi del portone del giurato numero due, indiziato numero uno, ha ancora la possibilità di osservare dove è arrivata, trarre un bel respiro e rispondere: “sì”.
Il contrario di un mondo perfetto, Clint lo sa da sempre, almeno si abbia il coraggio di guardarlo (di guardarsi) in faccia.