
TRAMA
J. Edgar Hoover (1895 – 1972): vita, opere e omissioni. La sua carriera come potente direttore dell’FBI sotto gli occhi dell’America e del mondo, l’impossibile e invisibile amore per il suo braccio destro Clyde Tolson.
RECENSIONI
"What's important at this time is to re-clarify the difference between hero and villain".
"Do I kill everything that I love?"
J. Edgar.
Il nome proprio nel titolo e l'omissione del cognome lasciano presagire uno scavo nell'intimità dell'uomo a scapito della figura pubblica, una perlustrazione delle camere private piuttosto che delle stanze del potere. Ma è solo il primo di una serie di inganni di un'opera prismatica e sfuggente, tormentosa e labirintica in cui una personalità sessualmente frustrata, edipicamente castrata e affettivamente mutilata si lega a doppio filo all'ascesi ossessiva dell'esercizio del potere, al ruolo di censore e controllore indefesso della nazione. Il bisogno nevrotico di autoprotezione informa di sé quello inflessibile di difesa del proprio Paese in uno scambio reciproco via via sempre più morboso. Eastwood apre l'archivio degli Stati Uniti del XX secolo e ne tira fuori (out of the closet, quasi letteralmente) il dossier segreto su una delle sue figure chiave. Lungi dalla presunzione di voler svelare la verità occultata e forse anche poco interessato a una operazione di tal senso, quel che mette in scena è una versione, verosimile, della storia privata oltre che pubblica di Hoover, lo scioglimento plausibile ma non definitivo di un enigma cruciale per la storia di un'intera nazione. Dell'omosessualità di Hoover, ipotizzata, chiacchierata, smentita, mai realmente provata, della sua relazione col collaboratore Clyde Tolson (qui amorosa, forse casta) quel che interessa è la verità poetica (che si fa politica) ancor più che quella fattuale. Edgar J. s'impone così anche come paradossale, tortuoso e doppio atto di risarcimento: nei confronti degli americani cui mostra il delirante stato poliziesco operante appena sotto la presunta salvaguardia dei valori patri e nei confronti di Hoover cui viene restituita l'intimità che avrebbe voluto vivere e che forse non ha mai vissuto.
Nelle primissime immagini mentre la voce off di Hoover accusa le connessioni comuniste della Southern Christian Leadership Conference (l'organizzazione per i diritti civili afroamericani guidata da Martin Luther King) la macchina da presa si sofferma sul calco in gesso del volto di John Dillinger: la 'maschera' (il mascheramento del vero) e la morte saranno gli unici fili conduttori del rompicapo narrativo che seguirà. In una struttura alla Quarto potere (la sceneggiatura, firmata da Dustin Lance Black, può essere considerata anche come una sorta di doppio negativo di quella scritta per Milk di Gus Van Sant), nella quale alla polifonia di punti di vista sull'esistenza del personaggio principale si sostituisce quello unico, memorialistico ma mistificante, dello stesso Hoover che detta la versione della sua storia a una successione di giovani agenti-stenografi, si percorre avanti e indietro nel tempo lungo la carriera del fondatore dell'FBI nonché suo direttore dal 1935 fino al 1972: dai Palmer Raids del 1920 sferrati contro anarchici e radicali alla crociata indefessa contro i 'bolscevichi', dalla lotta spettacolare e fortemente pubblicizzata contro i grandi gangster degli anni Trenta a quella subdola e sotterranea avente nel mirino gli attivisti liberali fino ai rapporti ambivalenti e sempre tesi intrattenuti con i diversi presidenti succedutisi alla Casa Bianca, ben otto, durante il suo lungo mandato. Nell'accostarsi all'ingombrante figura di Hoover Eastwood segue la strada più rischiosa, facilmente fraintendibile come assenza di posizione (questo spiega forse la controversa accoglienza in patria): pur illuminandone con severa pietà le zone buie sentimentali non dà adito a un'umanizzazione giustificazionista; analogamente nonostante non si tiri indietro nell'indicare le odiose storture del suo operato, sottolineando comunque le indubbie capacità tecniche, non ne fornisce una troppo comoda demonizzazione. Ne decostruisce il mito, non ne sminuisce il cupo mistero. Il 'repubblicano' Eastwood constata dunque disincantato la deformazione della lezione democratica dei padri della patria (il breve faccia a faccia tra Hoover e il ritratto di Washington prima di entrare in udienza presso l'ennesimo Presidente): Hoover è mostrato come un uomo nel quale il puritanesimo fondativo americano si è esacerbato fino alle estreme conseguenze ideologiche, fino a radicalizzare in modo paranoico la lotta tra Bene e Male, al di là di ogni logica individualista o spirito umanista. Ma il punto forse è ancora un altro. Con Hoover la violenza americana si sposta nel territorio più insidioso della comunicazione e dell'immagine. Ed è qui che J. Edgar prosegue e approfondisce il discorso messo a fuoco da Eastwood nell'incompreso Flags of our fathers (la doppia bandiera di Iwo Jima, l'eroismo lustro da prima pagina), poi continuato in Changeling (la foto col finto figlio imposto alla Jolie dalle forze di polizia) e ripreso in chiave positiva in Invictus (le strategie della comunicazione istituzionale non come propaganda mistificante ma come dispositivo costruttivo), affiancandolo a una parallela riflessione sul cinema come strumento politico, macchina mitopoietica, fabbrica del consenso in vendita al miglior offerente (singolare l'anno di nascita di Hoover: il 1895).
Tra i film appena citati, J. Edgar appare più strettamente legato, anche per una contiguità stilistica e scenografica, proprio al film con la Jolie del 2008, dura opera sul potere ambivalente delle immagini. La protagonista di quel film, Christine Collins, vedeva infatti la sua individualità, di donna e cittadina, annichilita attraverso la progressiva distruzione e sostituzione della sua immagine da parte del potere assoluto di un'Istituzione preoccupata anch'essa della tutela della propria, in una Los Angeles che viveva dei riflessi di Hollywood all'inizio della sua Golden Age. Alla doppia Claudette Colbert del finale di quel film (Christine decide di scommettere sulla vittoria agli Oscar di Accadde una notte, preferendo all'arrogante retorica spettacolare di Cleopatra di De Mille il sorriso ottimista di Frank Capra e scegliendo dunque solo una delle due immagini con le quali si era proposta l'attrice, protagonista di entrambi i film) fa eco il doppio James Cagney di J. Edgar, prima gangster fascinoso in Nemico pubblico di William A. Wellman, poi solerte e archetipico agente FBI in G-Men di William Keighley. Ma se la Collins è una vittima del Sistema, Hoover ne è uno degli ideatori, artefice di un metodo di controllo poliziesco che oltre che sulle migliorie scientifiche apportate ai metodi investigativi si basa sulla logica della schedatura dei potenziali nemici del Paese e sulla manipolazione dell'informazione. Grande burattinaio delle immagini contraffatte ad arte, Hoover finisce per rimanere intrappolato nel suo stesso sistema repressivo, a disagio con la propria immagine scissa tra pubblico e privato (che prova a modificare tramite l'esercizio fisico o le diverse puntate in sartoria), fino alla splendida sequenza, di toccante crudeltà, con Di Caprio allo specchio in abiti materni, straziato e dolentissimo Norman Bates (sia detto en passant: interpretazione prodigiosa). E sarà infine nel prefinale il suo fedele compagno di una vita, l'unico forse a conoscerlo veramente, a svelargli l'impostura del suo status iconico (rimettendo in discussione anche quanto visto fino a quel momento).
Con J. Edgar Eastwood firma forse il suo film più libero e arrischiato dai tempi del dimenticato Mezzanotte nel giardino del bene e del male. Il biopic si frantuma in un ombroso andirivieni temporale in cui i flashback s'incastrano tra loro per assonanze interne, scompaginando l'ordine cronologico a favore di un flusso di eventi sul quale lo sguardo rimane forzatamente parziale, glissando su alcuni fatti (la presunta collusione con la mafia), alludendo ad altri per forza di sintesi (il caso JFK, le sole ombre di Kennedy e Marilyn che si stagliano contro una parete), concedendo ampio spazio all'esemplarità dell'affaire Lindbergh. Affiorano quindi in questo pattern narrativo disgregato, legate dal collante delle luci desaturate e raggelate del 'bianco e nero a colori' di Tom Stern, schegge sparse di un mélo negato, lacerante quanto più goffo e improbabile, intenso quanto più reticente. All'ultimo Eastwood, al suo cinema sempre più abitato da fantasmi sembra interessare poco l'adesione a un rigoroso e razionale realismo espositivo (si veda anche l'uso del make up del cast, plateale, ai limiti del grottesco, a riveicolare il concetto polisemico di 'trucco', il ruolo della maschera e la sua pesantezza) confermando così ancora una volta l'inesattezza dell'etichetta di 'ultimo regista classico' che gli è stata appiccicata addosso, mentre la sua messinscena si sposta in territori sempre più vicini all'astrazione. Opera complessa e densa, probabilmente non decifrabile nello spazio di una sola visione, ennesima conferma (se ce ne fosse ancora bisogno) del magistero stilistico eastwoodiano, J. Edgar vede deflagrare dolcemente la pregnanza del suo titolo onomastico solo nel magnifico finale: spogliato dal sopraggiungere della morte della grisaglia burocratica e ufficiale del cognome, l'uomo si offre finalmente corpo e nudo al suo amante mentre l'appassionata lettera scritta dalla giornalista Lorena Hickok alla first lady Eleanor Roosevelt da odioso strumento di ricatto e manipolazione si trasforma in specchio dell'anima perduta di J. Edgar, terminale e smascherante canto d'amore e morte, bagliore di un'umanità fragile non più contraffabile.

Il biopic in questione. Ovvero, ha il film biografico gli stessi doveri a cui deve rispondere una ricostruzione, per quanto romanzata, oppure lo statuto artistico e finzionale scioglie tutti i vincoli? La verosimiglianza storica, il tono oggettivo e la pretesa di completezza sono valori aggiunti o valori fondanti, un lusso o un obbligo? Capita che a giocare con i rapporti tra cinema e storia si finisca per dover ammettere lo stallo: concetti scivolosi (uno su tutti: verità), implicazioni morali, altro ancora. Un biopic su uno dei burattinai del Novecento acutizza i problemi perché si è obbligati a prendere posizione - e questa non può essere che politica - sulla domanda, il cardine stesso del genere, «chi è...?». Per rispondere, però, non ci si può fidare soltanto di ciò che il film «dice»: a saper interrogare ciò che «mostra» e ciò che «non dice» si può persino sperare di arrivare più in profondità. J. Edgar Hoover è - è stato - a capo dell'FBI per otto presidenti, da Coolidge a Nixon, e quarantotto anni. Sotto la sua direzione un ente scalcinato e corrotto diventa una macchina scientifica di controllo sociale, uno strumento di repressione di ogni forma di dissenso, un apparato tanto forte da mettere a tacere gli stessi poteri forti dello Stato. J. Edgar Hoover è - è stato - un ometto paranoico che ha fondato il proprio potere sulla persecuzione e sul ricatto, anche grazie ad un archivio segreto utilizzato spregiudicatamente contro qualunque oppositore. J. Edgar Hoover è - è stato - infine un omosessuale represso, anaffettivo e frustrato, inchiodato da una moralità bigotta a vivere la propria natura nella menzogna. Fin qui J. Edgar e J. Edgar Hoover - pubblico, privato e segreto - sostanzialmente coincidono. Come pure le contraddizioni e la doppiezza di un personaggio che in nome della sanità morale della nazione ha slabbrato a suo piacimento le fondamenta della democrazia americana (quel primo emendamento che forse non è un'invenzione dei legal thriller). La sceneggiatura a firma di Dustin Lance Black utilizza uno stratagemma narrativo forte per dare coerenza all'ambiguità di fondo che permea il film: il vecchio Hoover che detta le sue memorie, e che quindi propone una lettura quasi sempre assolutoria delle vicende nelle quali è coinvolto. Almeno in teoria, l'andirivieni tra il passato (fine '10-'30) e il presente (fine '60- inizio '70) rappresenterebbe dunque il passaggio continuo dalla autorappresentazione alla realtà e viceversa. Pur rendendo illogica l'apparizione di alcuni scheletri del passato di Hoover, come la relazione con Clyde Tolson, il giochetto mostra tutto il suo paraculismo nelle situazioni in cui l'adozione passiva del punto di vista motiva delle posizioni politiche che altrimenti sarebbe stato arduo abbracciare. La parte sulla prima grande Red Scare (1917-20) e i conseguenti Palmer Raids (novembre 1919), capitolo tra i più agghiaccianti della storia nordamericana, porta il meccanismo all'esasperazione: arresti indiscriminati, persecuzioni e deportazioni non solo si danno come necessari - la nazione è in pericolo, non si può attendere che i radicali facciano realmente qualcosa - ma addirittura come giusti, tramite un'iconografia del terrorismo stragista e complottista che ricalca certe rappresentazioni bushiane ritenute a torto archiviate. Ma la ferocia degli anarchici, la spocchia odiosa di Emma Goldman, la plasticità straziante dei cadaveri dei poliziotti, la bandiera insanguinata, appartengono a Hoover o a Eastwood, Black e compagnia? È moralista sostenere che questa ambiguità sia immorale?
J. Edgar non è, a sua difesa, un’agiografia o un tentativo di riabilitazione di un personaggio controverso. Rispetto all’Hoover già conosciuto al cinema – si pensi allo splendido Hoover and I (De Antonio, 1989) o ai cammei di Bananas (Allen, 1971) e Public Enemies (Mann, 2009) – e in letteratura – De Lillo e Ellroy, su tutti – si scava di più sul lato psicologico nel tentativo di restituire un ritratto meno deformato, più umano. In questa direzione l’omosessualità, vissuta come colpa da mondare, innesta una relazione empatica con lo spettatore, seppure basata sul patetismo da outcast che male si abbina ad un’eminenza nera. I lati oscuri del personaggio non solo sono riconosciuti, ma pure caricati, come nella scena delle intercettazioni di Kennedy nella quale le tenebre interiori di Hoover vengono materialmente rese dalla perfetta fotografia di Tom Stern, capace di miracoli nell’ambientazione Twenties – ma tutto il crew, che Eastwood si tira dietro da Mystic River, è in stato di grazia. Altrettanto il cast, di cui lo spettatore italiano conosce una performance limitata da un doppiaggio piallante, specie nei confronti di Di Caprio che recita sotto le righe con pronuncia di Washington e dizione da burocrate. Il celebrato stile del regista, anacronismo di una classicità ben impiantata nel contemporaneo, si fa complice del processo di «normalizzazione ambigua» del personaggio, da un lato con una messa in scena pacificata che risolve le conflittualità per mezzo della simmetria e della profondità di campo, dall’altro con una messa in quadro costantemente decentrata rispetto al protagonista (le uniche scene centrate di Hoover sono, guarda caso, di spalle o al cinema). Eppure, ormai dovrebbe essere chiaro, per Eastwood la forma è il contenuto: così, anche il film è ben dentro lo stesso processo di «normalizzazione ambigua», poiché, pur non essendo agiografia, non è nemmeno l’atto di accusa che Hoover merita. Insomma, reticenze e omissioni hanno un peso notevole nella ricostruzione del personaggio. Se la lotta alla criminalità organizzata è legittima e se le persecuzioni ai radicali possono essere condivise – ma non lo sono, sia chiaro – in nome di una presunta minaccia alla sicurezza della nazione, come la mettiamo quando lo stesso trattamento è riservato al movimento per i diritti degli afroamericani? Il film risponde che d’accordo, Hoover è una persona scorretta, ai limiti dell’ossessione, però ha un suo sistema di valori granitico che coincide dopotutto con quello della nazione. E se si aggiungesse quello che il film non racconta? Tra campi di concentramento, rastrellamenti, persecuzioni e controspionaggio Hoover si guadagna per alti meriti il soprannome di «J. Edgar Himmler» (lady Roosevelt fecit), ma Eastwood lo presenta solo come «Speed» per la sua parlantina. Non è poco. Scrive Roberto Escobar su l’Espresso che J. Edgar è la confutazione «dell’innocenza di un’intera nazione, e della sua missione storica per così dire salvifica». Ma questo non significa affatto ammissione della colpa, anzi.

Due approcci diversi al materiale biografico dello sceneggiatore Dustin Lance Black: Gus van Sant, in Milk, rompeva la drammaturgia classica con la figuratività, nella forma più che nella sostanza, preservando il talento di Black nel cogliere i tratti salienti di un personaggio e restituirli in atti significativi. Il leone della classicità Clint Eastwood, invece, lavora di fino su altro per dilatare, donare più spessore e significati più ampi: questione di inquadrature e montaggio, ma soprattutto di direzione degli attori; di cadenza ritmica, di commento sonoro ma soprattutto di “sguardo”. L’andirivieni continuo fra anni sessanta e trenta restituisce un quadro esaustivo del protagonista, “alla Eastwood”, vale a dire Cacciatore Bianco Cuore Nero, fra macchie e onori: un convinto difensore della legalità e del benessere del suo paese, che ha rivoluzionato l’indagine poliziesca e portato nel cuore del pubblico i difensori dell’Ordine (tocco cinefilo: prima aveva successo Nemico Pubblico, poi ci si esalta per La Pattuglia dei Senza Paura). Al contempo, un fanatico con complesso di inferiorità, succube di una figura materna ingombrante, con omosessualità repressa che Eastwood segna come punta dell’iceberg per capire/compatire una frustrazione che, in nome della moralità pubblica, pretendeva da se stessa lo stesso rigore che imponeva agli altri. Hoover, fautore del “fine che giustifica i mezzi”, per il regista è un Re Lear che, accentrando troppo il potere, diventa vittima di se stesso, scivolando in contraddizioni di cui neppure si accorgeva. Una vita dedita al lavoro e con amori platonici per la madre, la fedele segretaria, il braccio destro di cui rifiutava i sentimenti. Un film biografico esauriente nel ritratto pubblico e privato, che riesce a spiegare l’uno con l’altro. Ottimo Di Caprio sotto pesante trucco (quello di Armie Hammer, però, sembra il lattice di uno sgraziato b-movie anni sessanta). Peccato per la scena urlata, non necessaria, in cui Hoover, rimasto solo, dice “Ti amo” rivolto a Tolson.
