
TRAMA
RECENSIONI
Il post-postmoderno - cioè il contemporaneo - è l’epoca in cui nella crisi irrisolvibile del vero (qualcuno l’ha chiamata post-verità) tutto si confonde nel grottesco (qualcuno l’ha chiamata post-ironia). E questo apparentemente fuori luogo preambolo serve ad affermare che l’action movie muscolare non esiste più, se non mediato dalle maglie (auto)ironiche dei suoi protagonisti. Provate a guardare uno degli ultimi venti film con Dwayne ‘The Rock’ Johnson e farete fatica a non trovarvi il risolino, la battutina, il personaggino fisicato con la battuta sempre pronta. Il risultato è tipo comportamentismo pavlov-skinneriano: ahahah che ridere, è grosso ma fa lo scemotto!
Ciò dovrebbe forse farci riflette più largamente su cosa premia il pubblico del cinema contemporaneo, ma magari di questo ne parliamo un’altra volta.
Valeva già, a dire il vero, qualche decennio fa, se pensiamo che Schwarzenegger dopo la consacrazione di Terminator inizierà a recitare una costante (e alle volte brillante) parodia di se stesso. Solo che oggi la posta è stata ulteriormente alzata, o abbassata, con una sorta di posticcia rivincita degli stuntman, davanti e dietro la macchina da presa. Davanti, tanto per intenderci, ricordiamo il buon spaccone Cliff/Brad Pitt di C’era una volta a… Hollywood, che prendeva a botte Bruce Lee e salvava (nella neoclassica ucronia tarantiniana) Sharon Tate dagli sgherri di Charles Manson. Dietro, invece, basti ripercorrere le disavventure di John Wick, girato da Chad Stahelski, ma pure, a dire il vero, dal nostro David Leitch. Anche qui, potremmo dilungarci su una presunta politicità della tendenza in questione (è una vera esaltazione delle maestranze rispetto alle star, o piuttosto una finta starizzazione delle suddette, assorbite nel circuito del divismo?), ma magari anche in questo caso un’altra volta. Certo è che questa è gente che del cinema ha un’idea precisa, come di un’arte in cui il visivo sposa il coreografico, l’esplosivo la svenevole emozione, tutto all’insegna di un’epica sì, però sistematicamente castrata da quella patina - noiosamente o stucchevolmente metacinematografica - di scherzosità (ancora Brad Pitt che in Bullet Train rischia per l’intero film e simpaticamente di morire male, tanto per menzionarne uno). Tutto, sempre, uno scherzoso, risibile scherzo. Tutto, sempre, meta-qualcosa, alla faccia del desquamarsi del film di metziana memoria.
E dunque eccoci a The Fall Guy, che rimpolpa le fila di questo trend con l’inventario al completo, vuoi narrativo, vuoi formale. C’è lo stuntman di buon cuore che si innamora della regista, e poi il complotto e il filmico che si riversa sul reale (non più le botte e le acrobazie sul set ma per davvero con veri criminali). Ci sono i ralenti che dovrebbero marcare la solennità del momento ma che invece sono piazzati proprio in modo da, indovina un po’, farci ridere disinnescandola. C’è infine, scendendo nel profondo ideologico, un nuovo (?) modello di mascolinità, incarnato da un Ryan Gosling che riassume i ruoli precedenti, e probabilmente pre-incarna quelli che verranno, nello stereotipo dell’eroe per caso, atletico ma capace di piangere. Un tipico maschio *aggiungere lettera greca in base allo stato del lessico nel momento in cui si leggerà questo pezzullo*. Tutto il resto è (forte la tentazione di rifarci qui all’abusato verso califaniano, ma non cederemo) esattamente quello che ci si potrebbe aspettare. Il che riapre uno degli interrogativi sospesi di cui sopra: è oggi il cinema un’esperienza forse più dell’atteso che dell’inaspettato? Per chi scrive, sarebbe meglio la seconda, ed è anche per questo che The Fall Guy resta un film forse senza infamia, ma sicuramente senza lode. Un tempo si sarebbe detto: un medio film per famiglie. E così ce lo teniamo.
